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Intervista a Fausta Genziana Le Piane
di Stefania Romito
intervista completa in voce

Cari amici di Ophelia, oggi ho grande il piacere di approfondire la conoscenza di una scrittrice giornalista che ammiro moltissimo. Il suo nome è Fausta Genziana Le Piane.

- Tu sei una poetessa, scrittrice e giornalista molto apprezzata. Tra i tuoi libri di poesie ricordiamo “Incontri con Medusa”, “La Notte per Maschera”, “Gli steccati della mente” e “Ostaggio della vallata”. Che cosa rappresenta la poesia per te?
La vita, non ne posso fare a meno, è una compulsione: mi alzo di notte per aprire il frigo e mangiare dolci e per scrivere al PC (una volta a macchina).

- Oltre a libri di poesie, hai pubblicato anche diverse raccolte di racconti tra cui “Duo per tre” e “Un ponte lungo tremila anni fra Scilla e Cariddi”. Qual è, se esiste, il comune denominatore tra le tue poesie e i tuoi racconti?
Non c’è molta differenza, ciò che mi caratterizza è economia di parola e i miei racconti non sono veramente componimenti in prosa ma petits poèmes en prose, come quelli di Baudelaire. Non potrei mai scrivere romanzi.

- Di recente hai pubblicato un testo critico dal titolo “La meraviglia è nemica della prudenza”, invito alla lettura de “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza. Goliarda Sapienza era un’attrice teatrale e cinematografica e anche una bravissima scrittrice che forse non ha ottenuto in vita il giusto riconoscimento per il suo talento letterario. Cosa ti ha spinto a dedicare un tuo testo a uno dei suoi libri più noti, “L’arte della gioia”?
Si tratta di “metamorfosi della materia”. Da molto tempo cercavo un incontro. Con una donna di cui scrivere, intelligente, forte, anticonformista, dalle parole limpide e potenti: ho trovato Goliarda Sapienza, del Sud come me. E’ stato un colpo di fulmine ed una vera rivelazione leggere “L’arte della gioia” di cui un mio amico scrittore catanese, Tommaso Maria Patti, ha voluto farmi dono. Abituata a studiare poeti e scrittori morti da tempo e le cui attestazioni sono riportate da testimoni a loro volta scomparsi, è stata un’intensa emozione per me parlare con persone che direttamente hanno conosciuto questa insolita scrittrice. Non è mio intento scrivere un saggio su “L’arte della gioia”, ma solo evidenziare alcune piste di lettura che compaiono ad ogni tappa della maturazione di Modesta, protagonista del libro. Infatti, ad ogni momento della sua crescita, corrisponde una strategia da lei messa a punto, una tecnica affinata, “un sistema escogitato”, “una disciplina” (che bella parola!) come lei stessa dice, che le consente di affrontare l’abisso della realtà senza soccombere: “l’arte della bugia”, che nella malattia, tra finzione e realtà, le permette di guadagnare tempo nelle situazioni difficili; “l’arte dello studio delle parole” per dominare la vita; “l’arte di viaggiare” per aprire la mente e “l’arte di cambiare” per essere totalmente maturi e consapevoli. Tutto ciò legato dall’uso della “metafora dei capelli”. Una bella scoperta!

- La protagonista de “L’arte della gioia” è Modesta, una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Una donna siciliana che attraversa bufere storiche e tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: «l’arte della gioia». Cosa ti ha colpito maggiormente di questo personaggio?
L’originalità, la forza, l’indipendenza, la ribellione. Un modello. Anche la vita di Goliarda è un modello.

- Il libro di Goliarda Sapienza è stato definito anche un romanzo di formazione. Nel tuo libro “La meraviglia è nemica della prudenza” tendi ad evidenziare come in ogni momento della crescita di Modesta corrisponda una strategia da lei messa a punto che le consente di affrontare l’abisso della realtà senza soccombere. Ce ne vuoi parlare?
Per una donna siciliana di quel periodo “sopravvivere” (perché pare che le donne non possano mai “vivere”) e di quel contesto storico e sociale (la Sicilia) ogni mezzo era buono, anche l’omicidio. Trovo questa condizione ancora attuale per le donne, in più in un contesto fortemente maschilista.

- Oltre ad essere una straordinaria scrittrice e poetessa, sei anche una bravissima collagista. Raccontaci di questa altra tua grande passione.
L’amore totalizzante per l’arte dei collages mi deriva dai miei studi. Sono laureata in francese e ho studiato le avanguardie dei primi del ‘900, il Surrealismo. Picasso, Severini, Braque hanno realizzato collages, arte giudicata sempre inferiore alle altre manifestazioni artistiche. Certo tutta l’arte del ‘900 è mentale, ed anche il collage lo è, ma unisce anche l’uso del colore e l’armonia delle forme. Si tratta di smontare il mondo e di ricomporlo secondo la propria visione delle cose.

Benissimo, Fausta. E’ stato un vero piacere parlare con te delle tue forti passioni. Noi di “Ophelia’s friends” ti auguriamo di ottenere moltissime soddisfazioni con i tuoi scritti e anche con la tua interessante attività di collagista. Tantissimi in bocca al lupo per tutto!

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Stefania Romito, in arte Romis, è una scrittrice di narrativa. Il suo primo romanzo, dal titolo "Attraverso gli occhi di Emma” (Alcyone Editore), tratta la delicata tematica della disabilità visiva. Alla prima presentazione del libro ha preso parte anche il Presidente dell’Istituto dei Ciechi di Milano, Cav. Rodolfo Masto. Il romanzo sta per essere tradotto in braille dalla Biblioteca per i Ciechi di Monza “Regina Margherita” e inserito, in versione audiolibro, nel catalogo del “Libro Parlato” istituito dall’Unione Italiana Ciechi (U.I.C). Nel 2013 pubblica, sempre con Alcyone Editore, un minibook umoristico illustrato dedicato alla vita di coppia dal titolo “Tu di che coppia sei?” che viene recensito anche dal settimanale “GIOIA”. Le bellissime vignette sono state realizzate dalla vignettista Isabella Ferrante. Attualmente Stefania Romito sta lavorando alla realizzazione di una biografia in qualità di ghost writer e contestualmente sta pubblicando un thriller a puntate dal titolo “Ophelia, le vite di una ghost writer” (Alcyone Editore). In ambito sociale è impegnata nella realizzazione di un progetto da lei ideato che mira a rendere disponibile nei teatri il servizio dell’audiodescrizione per i non vedenti.
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Fausta Genziana Le Piane su
Bruxellando
intervistata da RADIO ALMA
(disattivate il sottofondo musicale)



IN RICORDO DI DALIA PELAGGI

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Fausta Genziana Le Piane


UN'AFFASCINANTE IPOTESI: SULLE TRACCE DI GESU' IN INDIA. INTERVISTA A MANUEL OLIVARES

Manuel Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora tra Londra e l’Asia. Nel 2002 pubblica il saggio dal titolo Vegetariani come, dove, perché (Malatempora Ed) al quale seguono Comuni, comunità ed ecovillaggi in Italia (2003) e Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa, nel mondo (2007). Nel 2009 fonda l’editrice Viverealtrimenti, per esordire con Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction e Comuni, comunità, ecovillaggi su un antico e moderno movimento di comunità sperimentali ed ecosostenibili. Seguono Yoga based on authentic Indian traditions, il suo primo libro in inglese e Barboni sì ma in casa propria, una raccolta di racconti e poesie. Gesù in India? è maturato nel corso di dieci anni di studi e ricerche sul campo, prevalentemente in Kashmir, Punjab e Ladakh, avendo come base la città santa di Varanasi.
Il libro - molto ben documentato e affascinante - indaga gli “anni perduti” di Gesù (quelli di cui non si fa menzione nei Vangeli) che ne ridefiniscono la figura nei termini di un viaggiatore e profeta universale (p. 25). Pare che Gesù, partito dalla Palestina appena dodicenne, abbia compiuto un pellegrinaggio di diciassette anni in India, nel corso dei quali si aprì, da discepolo, agli insegnamenti del Buddha e, allo stesso tempo, predicò come un maestro (p. 26).

-La tua è una vita da nomade: si può tornare indietro da questa scelta?
Penso proprio di sì. Io amo molto la prospettiva filosofica buddhista che si basa su tre caposaldi: dukkha, anicca, anatta; (inevitabilità della) sofferenza, impermanenza e assenza di un sé autonomo perché tutto è interconnesso, ragion per cui, scriveva il grande monaco vietnamita Thich Nhat Hanh: noi non, semplicemente, siamo, bensì inter-siamo.
Per rispondere alla tua domanda, considererei il secondo caposaldo: l’impermanenza. Tutto è impermanente, transitorio, la parola “definitivo” ha sempre avuto, a mio vedere, un che di arbitrario, come dire, di falso. Dunque non posso che risponderti: oggi vivo nomade, consapevole che domani, se dovessi ancora esserci, potrei scegliere o essere costretto a vivere in altro modo. Dunque, certo, si può tornare indietro anche se, in realtà, indietro non si torna mai. La stessa, eventuale, sedentarizzazione sarebbe, difatti, un’esperienza diversa da quella vissuta in precedenza (io stesso sarei, nel frattempo, cambiato), da accogliere, possibilmente, con l’apertura che si dovrebbe a tutte le esperienze nuove, cercando di concedere il meno possibile alla paura. Noi tutti siamo nuovi ogni giorno. Nulla stagna, anche se così può sembrare.
Ti racconto un breve aneddoto di qualche anno fa. Sono in Thailandia, a Chiang Mai e ho appena terminato un ritiro in un importante monastero buddhista della città (Wat Ram Poeng), dove a suo tempo andò in visita anche Benedetto XVI. Il monaco che ha seguito noi stranieri nel corso della nostra permanenza (io, tra me, lo chiamavo Ho Chi Minh) ha un carattere strano, come dire, un po’ furastico.
Sono dunque appena “rientrato nel secolo” ma, nei giorni successivi, decido di fare un altro ritiro. Dunque torno in monastero, vado da Ho Chi Minh e gli chiedo se, di lì a una settimana, posso rientrare per altri dieci giorni. Lui mi dice di sì, che c’è posto. Nel corso della settimana che mi separa dal ritiro, tuttavia, decido di non farlo più. Colpevolmente non lo vado a dire a Ho Chi Minh anche se mi sono trasferito a vivere a due passi dal monastero e dovrei farlo con solerzia. Passano circa dieci giorni e giunge il momento in cui decido di passare in monastero per una breve seduta di meditazione, terminata la quale, avviandomi verso l’uscita (i monasteri buddhisti, in Thailandia ma anche altrove, non sono, in genere, costituiti da un solo edificio, sono più delle cittadelle con molti edifici: vari templi, foresterie, uffici) chi ti incontro? Ho Chi Minh. In principio mi prende un minimo di sgomento. Lui, ti dicevo, ha un carattere furastico e se mi avesse fatto una lavata di testa avrebbe avuto perfettamente ragione. Mi vede ma non mi saluta (va specificato che non salutarsi, in Oriente, è molto più normale che in Occidente, il saluto in quelle terre non è così scontato, nel caso dei monaci, poi, dovrebbero essere i laici a salutare per primi). Io decido rapidamente di non fare finta di niente, di avvicinarmi e scusarmi. Dunque, dopo averlo salutato rispettosamente, gli faccio: mi dispiace per non essere venuto ad avvertire che non avrei fatto un nuovo ritiro, spero di non aver tenuto occupato il posto per qualcun altro. Ho avuto degli impedimenti...ma Ho Chi Minh mi ha già interrotto con un ampio sorriso: don’t worry, mi risponde con tono distaccato, everything is impermanent!
Io dalle letture buddhiste avevo già in qualche modo assimilato il concetto ma debbo dire che quell’episodio con Ho Chi Minh lo ha proprio impresso a fuoco nella mia coscienza.
È come se avesse rappresentato un piccolo satori, una piccola illuminazione. Certo, tutto è impermanente! Limitiamoci a ricordare questo.

-Che significato ha una vita nomade? Quello della libertà o anche quello dell’egoismo?
Lo stesso concetto di ego, da un punto di vista buddhista, è arbitrario. Come ti dicevo prima, citando Thich Nhat Hanh, noi non, semplicemente, siamo, bensì inter-siamo. Ho appena caricato sul canale You Tube della Viverealtrimenti una bella intervista a Mario Monicelli, noto solitario, persona che non si è mai fatta una famiglia dunque, secondo alcuni, egoista oltre che misogeno e misantropo (povero Monicelli, giele attribuivano tutte...). L’intervistatore gli chiede lumi sulla sua solitudine e lui da, a mio avviso, risposte che denotano una buona saggezza. Dice di non soffrirne perché, alla fine, sta solo unicamente in casa propria, dove la solitudine può essere godibile (stando in uno spazio protetto che, inoltre, è anche il proprio, albergando le proprie cose). “Quando esco nel mio quartiere”, dice Monicelli nell’intervista (il bel Rione Monti di Roma), “sono sempre in relazione: vado dal barbiere, vado a fare la spesa, conosco tutti e tutti mi vogliono bene, dunque non mi sento solo”. Credo avesse ragione, che fosse ben consapevole di inter-essere e che lo stesso concetto di solitudine sia frutto più di paura che di altro. In virtù della dimensione dell’interessenza, si può essere in contatto con gli altri anche senza dividere con loro spazi fisici. Si può essere in contatto, ad esempio, attraverso i sogni, soprattutto i cosiddetti sogni vividi dove probabilmente incontriamo anche forme di coscienza disincarnata, vive nel piano incorporeo (la coscienza non ha necessariamente bisogno di un corpo, di una “tunica di carne”, per utilizzare un antico concetto gnostico), di persone trapassate che non sono definitivamente scomparse, sono solo passate da un piano di realtà all’altro.
Dunque, a mio parere, dovremmo in primo luogo dotarci di categorie di riferimento più ampie e poi, alla luce di queste, riconsiderare alcuni concetti. Abbiamo parlato della solitudine, abbiamo accennato all’ego (con cui noi siamo identificati tutte le volte che dimentichiamo non solo di essere ma di inter-essere), consideriamo meglio il concetto di egoismo. È, come spesso accade, un concetto molto relativo. Mi è capitato di verificare quanto spesso si accusino, egoisticamente, gli altri di essere egoisti. Capita che li si consideri tali perché si nutrono, nei loro riguardi, delle aspettative che loro non soddisfano. L’epiteto di egoisti viene dunque dato loro, spesse volte e in certa misura, in ragione di una propria frustrazione però sarebbe anche saggio chiedersi: quanto sono egoista, io, a pretendere che un’altra persona soddisfi a pieno le mie aspettative? Fino a che punto è eticamente lecito, da parte mia, avere un certo genere di aspettative nei riguardi di un altro? Essere egoisti, a mio modo di vedere, è prima di tutto una questione di ignoranza. Più siamo coscienti di inter-essere, più il rapporto con l’altro è all’insegna di uno scambio naturale che ricorda le inspirazioni (con cui si prende l’ossigeno rilasciato dalle piante) e le espirazioni (con cui si rilascia anidride carbonica che viene utilizzata dalle piante nel corso della fotosintesi clorofilliana).
Dunque, per rispondere alla tua domanda in merito al senso egoistico di una vita nomade, non posso che dirti: dipende! Dipende da come la si vive. Il nomade non è un marziano, è una persona come tutte, può essere saggia o stolta, buona o cattiva, egoista o meno. Quante persone che hanno una famiglia regolare, avendo magari provveduto a sistemare i figli in una casa vicina alla propria, si comportano in modo egoistico? Certo, la qualità dei rapporti in una vita nomade è diversa da quella di persone stanziali. Non tutti riescono a tenere adeguatamente conto di quanto le persone possano essere legittimamente “biodiverse”, trovando più semplice giudicare in base a categorie stereotipe.
Veniamo ora alla libertà. Mi chiedi se il significato di una vita nomade possa essere quello della libertà.
Io mi domando e ti domando, a questo punto: cosa significa essere veramente liberi? Mi viene in mente un dialogo del film Easy Rider, cult degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Lo ricordo praticamente a memoria. Jack Nicholson, avvocato alcoolizzato, si è appena aggregato a due beatniks capelloni, vagabondi, motociclisti, reietti e fumatori di ganja. La sera, di fronte a un bel fuoco di bivacco, uno dei due gli dice: “a noi non affittano le stanze negli hotel, nemmeno in quelli più economici perché le persone, di noi, hanno paura”. Jack Nicholson, a quel punto ? uomo di mondo, integrato ed emarginato a un tempo, in grado dunque di dominare entrambe le prospettive, di coloro che sono inseriti nel sistema e degli outsiders ? gli risponde in modo molto filosofico: “non hanno paura di voi, hanno paura di quello che voi rappresentate. Voi rappresentate la libertà!”.
“Cosa c’è di male nella libertà”, gli risponde a quel punto il beatnik (Dennis Hopper), “la libertà è tutto...”.
“Oh, sì”, riprende Jack Nicholson, “la libertà è tutto ma parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire: è difficile essere liberi quando ti vendono e ti comprano al mercato. Certo, ti parlano, ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà individuale ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno paura!”.
Una paura, avrebbe ripreso Hopper, “che non li fa scappare” ma, avrebbe infine chiosato Nicholson, “li rende pericolosi”.
Difatti Dennis Hopper e Peter Fonda, i due beatniks, lasciato Jack Nicholson al suo destino e alla sua bottiglia, avrebbero fatto una brutta fine. La paura della loro libertà avrebbe reso, effettivamente, gli “integrati” pericolosi…in un paese ? gli Stati Uniti ? dove le armi sono sempre girate con una certa disinvoltura: Bang!
Dunque, cosa significa essere veramente liberi? Quanto figure come quelle di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider rappresentano davvero la libertà? Io credo ne rappresentino, senz’altro, la ricerca spasmodica, quella stessa cui la maggior parte delle persone che si integrano senza obiezioni rinuncia, magari per paura, odiando coloro che invece la portano avanti.
Ma quanto la vera libertà si possa trovare attraverso la dromomania, la mania di muoversi da un posto all’altro, senza meta precisa, credo sia altra questione.
Anche in questo caso credo la piena libertà si possa trovare nel momento in cui si è liberi dall’ignoranza, ci si ricordi, in ogni istante, che la sofferenza è inevitabile ma può essere profondamente accettata in quanto tale, che nulla meriti attaccamento morboso perché tutto è impermanente, che noi ci illudiamo di avere uno statuto ontologico autonomo mentre, in realtà, viviamo in una dimensione di interessenza e che tutto quel che accade è espressione di un’intelligenza superiore e qui si lascia il piano puramente filosofico entrando in quello della connessione e della relazione con il divino.
Il significato di una vita nomade è quello della libertà? Mi sembra francamente una prospettiva un po’ schematica. La persona veramente libera può essere nomadica o stanziale, l’essere libera, a quel punto, è una variabile indipendente.

-Il viaggio per il viaggio può essere una forma di fuga?
Certamente sì, può esserlo. È essenziale la maturità con cui si viaggia e questa la si può, naturalmente, acquisire con il tempo, “nessuno nasce imparato”. A questo proposito credo meriti specificare una cosa. Il viaggio, di per sé, non rende edotti, genera sicuramente esperienza ma affinché l’esperienza si traduca in conoscenza e saggezza è necessario, il mondo, non solo calpestarlo. Va anche interpretato. In questo caso il viaggio diventa un elemento importante di un processo ermeneutico che possa contribuire a sviluppare conoscenza e saggezza. Insomma, si può anche girare tanto ma a vuoto, magari senza liberarsi delle quattro categorie stereotipe della propria cultura, relazionandosi con gli altri (esponenti di altre culture, anche profondamente diverse dalla propria) attraverso bieche proiezioni. Chi viaggia per fuggire rischia, a mio vedere, più di altri di girare a vuoto, per quanto il viaggio può sempre dare dei bandoli di consapevolezza in più e insegnare a continuare a viaggiare ma in maniera più matura.

-Certo il viaggio non è sempre quello romantico, esotico di cui parla Charles Baudelaire per esempio in “Invitation au voyage”: cosa si prova davanti alla miseria e alla povertà sapendo di non poter agire?
Bella domanda, grazie! Mi punge un po’ sul vivo perché io mi muovo fondamentalmente in Asia dove si trovano ancora molte forme di povertà e di miseria (e se la miseria materiale è orribile, è quasi ancora più orribile il fatto che generi altre forme, non immediatamente materiali, di miseria). Cosa si prova di fronte ad esse? Banale dire: rabbia e compassione ma, per quanto mi riguarda, provo soprattutto queste due emozioni.
Altrettanto banale parlare del grande senso di impotenza che ogni tanto coglie ma è proprio quello che in alcuni casi si prova. Poi, al solito, a costo di diventare noioso, la stessa percezione di questi fenomeni varia con il tempo. Ci si matura dentro, si tenta almeno di farlo, ci si cresce dentro. Si cerca di farsene una ragione. Sicuramente la precarietà materiale e la sofferenza che genera tanto più colpisce quanto più coinvolge persone con le quali si creano rapporti umani che, con l’andare del tempo, acquisiscono spessore.
Un modo sicuramente bello per crescere dentro a quest’esperienza è sviluppare, con giusto equilibrio, la qualità che in sanscrito si chiama dana: generosità. Relazionarsi con persone che soffrono a causa di una precarietà materiale deve, a mio vedere, stimolare la consapevolezza del nostro privilegio e ispirare gesti di autentica generosità. Un privilegio che non viene, almeno in parte, condiviso è, a mio parere, immeritato.
Una bella frase di Salvador Allende è: “Noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri!”. Vivere in Asia aiuta a farne tesoro.

-Dici che l’India è una “grande palestra di vita” e una “vera scuola di sopravvivenza”: che intendi?
Dalla tua domanda desumo che tu non sia mai stata in India...un paese che, a mio vedere, ti forma molto anche in ragione di quello che non ha oltre che di quello che ha. In India acquisisce veramente grande pregnanza il detto chi fa da sé fa per tre!
Gli indiani, persone molto spesso di straordinaria intelligenza e maturità umana, vivono non di rado in una sorta di torpore millenario, dettato da un deliberato immobilismo sociale (che oggi sta iniziando a venir meno; il paese è oramai nell’orbita americana, vista anche la necessità, a mio vedere piuttosto urgente, di contenere l’espansione e l’ascesa cinese; questo naturalmente ha i suoi pro e i suoi contro).
Dunque, sostanzialmente, su di loro non si può fare molto affidamento e per tirarsi fuori da tutti i guai in cui ti caccia il paese, dove ancora oggi manca, quasi ovunque, un’erogazione costante di energia elettrica, le connessioni internet sono ancora erratiche, gli standards igienici…aiuto e potrei continuare a lungo, bisogna davvero fare appello a tutte le proprie risorse (e, praticamente, solo a quelle) per viverci periodi ragionevolmente lunghi.
Dunque vivere in India finisce per essere un’esperienza davvero formativa in cui ci si scopre ogni giorno più o meno capaci di affrontare, praticamente in solitudine, le più svariate, grottesche e imprevedibili difficoltà, tra cui la costante guerra psicologica che è una delle caratteristiche antropologiche del paese.

-La lettura del tuo recente libro sulla permanenza di Gesù in India scorre piacevolmente grazie alla formula scelta, cioè quella d’intervallare pagine di diario a parti più teoriche e permette al lettore di entrare nelle abitudini di un mondo così lontano: ti capita mai di guardare al passato e di rimpiangere la scelta che hai fatto?
Amo molto la canzone, di Edith Piaf, Je ne regrette rien! Credo sia un approccio esistenziale giusto. Sul passato non c’è modo di intervenire, ristagnarci toglie invece l’opportunità di agire sulle due dimensioni temporali per le quali abbiamo facoltà di intervento: il presente e il futuro. Cerco di non avere rimpianti e di sorvolare su quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Per colpa mia o di altri, lascia il tempo che trova.
Credo sia importante avere sempre coscienza del fatto che l’essere umano è, fondamentalmente, una grande opera incompiuta. Inutile affannarsi a realizzare chissà cosa, dimenticando la nostra condizione di fragilità creaturale, di stare “come d’Autunno, sugli alberi, le foglie”. Facciamo un esempio personale: io ho scritto, fino ad oggi, dieci libri. In particolare i libri sulle comunità intenzionali e gli ecovillaggi hanno aiutato alcune persone a “vivere altrimenti”. Mi capita di ricevere per email o anche di persona manifestazioni di riconoscenza per questo. Spero che anche il mio ultimo libro, Gesù in India?, possa essere utile a chi lo legge e credo possa, almeno, aiutare a vedere il mondo anche con altri occhi e questo credo sia già una buona cosa. Ho dato un mio piccolo contributo alla collettività ma, se non tenessi a freno il desiderio, potrei volere fare di più e di più, potrei giudicarmi per non aver fatto ancora abbastanza ma di questo passo si finirebbe per rischiare di sviluppare quello che il sociologo francese dell’Ottocento, Emile Durkheim, chiamava appetito d’infinito. In realtà, l’infinito è la dimensione stessa della vita e la cosa ci dovrebbe tranquillizzare. Il mondo stesso, nell’ambito del quale, pur senza rendercene adeguatamente conto, inter-siamo, è conoscibile all’infinito perché non solo è immensamente grande ma cambia di momento in momento, trasmuta costantemente in qualcosa di simile ma, in ultima analisi, diverso da sé. Dunque non avremo mai modo di coglierlo nella sua infinità, anche se riuscissimo a girarlo e a viverlo tutto, dovremmo, a fine viaggio, iniziare da capo per trovare un mondo nuovo, solo “parente” del precedente. E il nostro mondo, lo sappiamo, è un fenomeno insignificante rispetto all’universo o agli universi, dove probabilmente molte altre civiltà, chissà di quante, infinite cose noi non sappiamo assolutamente nulla. Poi ci sono, come si accennava prima, le forme di coscienza disincarnata, tutto l’universo incorporeo e tutto è ordinato, pensato o chissà quale verbo sarebbe più appropriato usare, da un’intelligenza superiore, rispetto alla quale qualunque cosa noi si possa fare non può non perdere drammaticamente di valore.
A fronte di tutto questo, che importanza può avere se Manuel Olivares ha scritto dieci libri o venti o nessuno? C’è una dimensione etica per cui, nel grande respiro del cosmo ognuno deve compiere il suo pur piccolo respiro ma, detto questo, le proiezioni egoiche, le ambizioni, le velleità e gli stessi rimpianti, se si cerca di essere costantemente coscienti del nostro inter-essere nell’infinito, nell’ambito di un ordine/ espressione di un’intelligenza sovrumana, diventano delle assolute inezie con le quali si dovrebbe evitare, nella misura del possibile, di perdere tempo. Qualunque cosa possa fare un uomo, solo con enormi difficoltà giungerà al “compimento della grande opera” (l’unico obiettivo che meriti davvero i nostri sforzi), per ascendere, secondo molte prospettive, a dimensioni di coscienza superiori, pur non scevre, a loro volta, da limiti.
Il parametro di riferimento, dunque, non deve essere tanto l’umano (e questo è invece uno dei problemi più gravi dell’Occidente contemporaneo e della suo narcisista società secolarizzata) ma, come a mio modo di vedere è ancora molto chiaro nel mondo islamico, il divino (l’intelligenza sovrumana cui si accennava, per azzardare una definizione) cui, semplicemente, abbandonarsi. E i musulmani hanno una straordinaria parola araba con la quale ribadiscono, nel quotidiano, il loro rimettersi completamente nelle mani di Dio, ben consci della loro fragilità creaturale: inshallah; Se Dio vuole! La cosa straordinaria è che molti di loro tendono a utilizzarla anche in relazione alle cose più banali, ad esempio: domani vado a fare una passeggiata, inshallah! Ed è un utilizzo che ha una pregnanza del tutto logica, oltre che mistica. In effetti: domani faccio una passeggiata innanzitutto se domani ci sono ancora; potrei morire nel sonno o potrebbe morire una persona a me vicina e domani dovrei andare nella camera ardente, non a passeggiare, potrebbe morire il gatto e questo potrebbe farmi passare la voglia di farla o potrebbe, semplicemente, piovere o potrei avere mal di testa o voglia di stare a letto con la mia ragazza perché il giorno prima abbiamo mangiato piccante e siamo pieni di fregole...quanto controllo abbiamo, effettivamente, non dico sulle nostre vite, anche sui loro banali dettagli? E allora perché non riappropriarci del nostro senso di fragilità creaturale, lasciando da parte la spocchia “un po’ francese” che abbiamo iniziato a metter su a partire dal secolo dei lumi e rioccupare il nostro posticino di piccole-grandi opere incompiute? Ecco, potremmo profondere energia in questo più che cedere alla tentazione di ristagnare nei rimpianti, in qualunque rimpianto.

-Tu sei abituato a viaggiare: il pellegrinaggio sulle tracce di Gesù in India cosa ha rappresentato per te rispetto agli altri viaggi?
È stato un viaggio straordinario perché per trovare i bandoli dei presunti anni indiani ho dovuto un minimo approfondire alcune scuole di pensiero in ambito hindu, buddhista e musulmano, andando, come si suol dire, sul campo.
L’India è un paese molto affascinante e inesauribile, sto trovando nuovi bandoli per cui la ricerca, come del resto scrivo alla conclusione del testo, è appena iniziata e la prospettiva è quella di un ritorno e di nuovi sopralluoghi (“inshallah”). Considerando il viaggio già fatto, mi è successo di dovermi muovere anche fuori da rotte peculiarmente turistiche e naturalmente sono state le esperienze più pregnanti. Il Ladakh, conosciuto anche come Piccolo Tibet, è abbastanza sfruttato turisticamente. È stato il primo posto che ho visitato perché nel monastero ladakho di Hemis sono stati trovati dei manoscritti che hanno rappresentato il leitmotiv di molta ricerca sugli anni indiani di Gesù. Tuttavia, andare proprio a Hemis è stata un’esperienza molto profonda perché non essendoci andato da turista e dunque non dovendomi limitare a una visita di un pomeriggio, ho passato più di una notte in casa di una famiglia ladakha, nel villaggio poco distante dal monastero. In alternativa c’era solo la guesthouse del monastero, non mi risulta ci fossero alberghi, il posto ha un turismo da corriera, da tempi contingentati e fotografie frettolose.
Il Ladakh è davvero un posto da ascesi, cos’altro si può fare in un luogo dove persino l’ossigeno scarseggia? Ecco, per certi versi seguire i presunti itinerari di Gesù mi ha costretto a seguire percorsi di ascesi e questo non ha potuto non costituire la conferma che mettersi sulle tracce dei grandi uomini è sempre di grande beneficio. Una prima esperienza, in questo senso, la ebbi a Rishikesh nel 2006, nell’ashram di Shivananda, yogi con cui aveva studiato il grande storico delle religioni Mircea Eliade. Poi avrei scoperto che nei tempi in cui visse a Rishikesh Eliade, l’ashram ancora non esisteva e che lui aveva piuttosto vissuto in dei kuteers (grotte/capanne per asceti) dalla parte opposta del Gange, dunque quella volta non indovinai il posto ma ricordo fu un’esperienza straordinaria passare una settimana nell’ashram di un grande maestro spirituale e non in un comune albergo. Gli altri ospiti erano quasi tutti degli Swami o dei Sadhu. Mangiavamo in terra, con le mani, seduti su strisce di tela grezza, ci servivamo il té da un’enorme damigiana di ferro…era la dimensione ascetica vera e la stavo vivendo perché stavo tentando di emulare il grande maestro Eliade. Sulle tracce di Gesù questo discorso ha acquisito, naturalmente, ancora maggiore pregnanza, mi sono trovato a Srinagar, la prima volta nel 2009, quando la tensione nelle strade era più palpabile di oggi, con presidi di militari, sacchi di sabbia, mitraglie e fili spinati e poi ci sono tornato, nel 2014, dopo la splendida esperienza in Ladakh e ho visitato nuovamente Rozabal, il santuario dove sarebbe sepolto Gesù e dove tutti sconsigliano di andare perché la zona è particolarmente a rischio per la presenza di molti fondamentalisti kashmiri ma io non ho mai avuto percezione del pericolo e poi ero sulle tracce di un grande maestro e questo mi faceva sentire, in qualche modo, protetto. Poi ci fu l’incontro con la Comunità Islamica Ahmadiyya e un soggiorno nella loro città santa, Qadian, in Punjab. Un incontro da cui sono uscito profondamente cambiato, a seguito del quale ho iniziato a vedere il mondo anche con altri occhi perché, per quasi venti giorni, sono stato da solo in un contesto integralmente islamico che mi si è disvelato giorno dopo giorno e che ha iniziato a comunicarmi un’altra (la loro) versione della storia e dell’attualità ed ho iniziato ad avere glimpse, che poi avrei approfondito e sto continuando ad approfondire, di quella che credo possa essere definita, con una generica metafora, l’altra metà del cielo. Non più guscio di stereotipi: un grande mondo vero, di gente in carne e ossa che ha iniziato a prendere vita, vita vera intendo, non trailer televisivi o articoli di giornali, ad accogliermi e a parlarmi ed è stata la scoperta di un altro infinito da esplorare e tentare di capire, pur con tutta l’inadeguatezza dei mezzi di cui dispongo.
È stato veramente un grande viaggio, sulle tracce dei presunti anni indiani di Gesù e spero davvero che sia solo agli inizi...

-Che cosa ti affascina di Gesù? Come vedi la sua figura?
Mi fai una domanda difficile. È difficile parlare di una figura immensa come quella di Gesù. Proviamo. Intanto mi preme sottolineare che per me Gesù non è “della stessa sostanza del Padre”. Meglio: non l’ho mai sentito come tale (poi è questione di fede, per carità), l’ho sempre sentito come un grande maestro e, allo stesso tempo, ho sempre condiviso nel profondo la prospettiva che del personaggio da Fabrizio De André nel suo capolavoro La buona novella. In una parola, condivido la definizione di De André secondo cui Gesù sarebbe stato il più grande rivoluzionario della storia. Una grande scoperta è stata il posto di tutto rispetto che Gesù occupa nell’Islam, dove è soprattutto conosciuto con il nome arabo Issa. Ecco, oggi posso dirti che, in merito a Gesù e anche in merito alla visione di Dio (che si lega, del resto, a quella di Gesù), mi sento molto più vicino all’Islam che al Cristianesimo. Dio, nell’Islam, è il ganz Andere, il totalmente altro, imperscrutabile, cui ci si può solo accostare senza che sia pensabile alcuna fusione (come invece si propone nell’Induismo) perché non si può postulare una consustanzialità tra creatore e creato. Una prospettiva così trascendentalista del divino, che non può in nessun modo essere rappresentato (perché nel momento in cui lo si rappresenta, lo si limita), mi ha persuaso nel profondo. La non rappresentazione del divino credo, difatti, possa agevolare nell’intuizione o percezione...anche qui le parole non sono adeguate, dell’assoluto. Del non soluto, del non diluito, di ciò che è puro, non precipitato, in nessun modo, nel mondo delle forme. Pura intelligenza e pura potenza, di cui l’essere rappresenta un’espressione in assenza, tuttavia, è bene ripeterlo, di una qualunque consustanzialità. Dunque, in questa prospettiva, Dio non si può fare uomo. Non sarebbe più Dio, si “diluirebbe”nella condizione umana e gli stessi fedeli potrebbero finire per percepirlo, pur senza rendersene conto (parliamo in questo caso di elaborazioni inconsce di simboli), come ? scusa l’espressione forte ? “un dio decaduto”.
Un input di riflessione potrebbe essere il seguente: non può forse essere che la nascita di fenomeni come l’Umanesimo, propedeutici al Rinascimento prima e al Secolo dei lumi poi e, in una parola, alla progressiva collocazione dell’uomo e non più di Dio al centro del mondo occidentale, cristiano abbia le sue radici nella identificazione di Dio con un, pur grandioso, uomo? Senza nulla togliere al contributo che l’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo hanno dato al progresso del genere umano ? sono convinto fossero passaggi necessari ? oggi ci troviamo con una cristianistà a brandelli e un mondo islamico che invece ha mantenuta integra, nel sociale e nella dimensione esistenziale della maggioranza dei suoi membri, la propria dimensione religiosa, che sta crescendo in fretta (secondo alcune stime l’Islam diventerà la prima religione al mondo entro il 2070) e ha già una presenza più che significativa in Europa e negli Stati Uniti.
Tutto questo, forse, anche perché l’Islam ha mantenuto al centro del proprio mondo Dio, ridimensionando costantemente l’uomo. Un Dio che, in virtù del proprio essere completamente trascendente, non si è mai “incarnato”.
Ciò non toglie che Gesù, nella prospettiva islamica (che io, come accennavo, tendo a condividere), pur non essendo Dio, ne sia stato guidato come il più grande profeta dopo Maometto: il protagonista del Sigillo della profezia.
Per quanto mi riguarda Gesù, oltre a essere stato un grande profeta, è anche stato, ripeto, il più grande rivoluzionario della storia, come sosteneva De André. Il suo grande impegno nel sociale è quanto mi coinvolge di più, la proposta di una visione intimamente fraterna, del relazionarsi con l’altro da uno spazio interiore di apertura, amore e non competizione. Il suo insegnamento è eterno e universale e credo sia del tutto auspicabile condividerlo con altre culture.
Grandi maestri indiani del Novecento e fondatori di nuovi movimenti religiosi si sono distinti nel sostenere alcune ipotesi sugli anni indiani di Gesù: autorità del calibro di Paramhansa Yogananda, Osho Rajneesh e Sai Baba, per citare solo i più conosciuti.

-Vi accomuna il viaggio?
Sicuramente la dimensione di vita nomadica che emerge da diverse letture apocrife della figura di Gesù e che riprende fedelmente lo stile di vita di Buddha e dei suoi discepoli la sento, per forza di cose, molto vicina.

-Nel libro si accenna al fatto che, secondo un testimone oculare, Gesù non morì sulla croce, ma fu deposto vivo, con le funzioni vitali sospese per poi tornare, dopo tre giorni allo stato psicofisico ordinario: non è strano? La crocifissione era una vera e propria condanna a morte, un’ordalia, non una tortura: in quanto, a Gesù, in aggiunta c’erano i chiodi che per i ladroni non erano presenti. Difficile sopravvivere.
Immagino sia difficile però ci sono testimonianze storiche, una ad esempio di Flavio Giuseppe, in cui si parla di persone crocifisse, pur con i chiodi e che, calate dalla croce, hanno avuto modo di sopravvivere. Poi, soprattutto, c’è il fenomeno di coloro che si fanno crocifiggere, a Pasqua, nelle Filippine. Con tanto di chiodi, in adempimento a un voto particolarmente impegnativo. Ce ne sono alcuni video su You tube. Rimangono in croce un’ora o due e poi ne vengono calati e, come scrive Jacopo Fo nel suo Gesù amava le donne e non era biondo, “naturalmente non muoiono”. Stando a quanto si legge sui vangeli canonici, Gesù è rimasto sulla croce massimo sei ore, un tempo considerato limitato per provocare la morte, al punto che il fatto che lui fosse morto, malgrado non gli avessero spezzato le gambe, ha lasciato scettici diversi contemporanei, a partire da Ponzio Pilato, come risulta dallo stesso Vangelo di Marco.

-Come definiresti the hearth of Asia, il cuore dell’Asia di cui parli nel libro?
In realtà l’espressione è ripresa dal titolo di un libro del pittore russo Nicholas Roerich che anche si mise sulle tracce degli anni indiani di Gesù, viaggiando in Asia per oltre quattro anni (dal 1923 al 1927). A me è venuta in mente, come avrai letto, quando sono stato a Srinagar la prima volta, mi sembrava davvero di stare nel cuore dell’Asia perché quella zona era uno snodo importante della celebre via della seta e, nel tempo, ha visto passare gente di ogni genere: mercanti dalla Cina, dalla Persia, dal Medio Oriente, dall’Asia Minore, dalla Grecia, dalla Palestina e dall’Egitto e mercanti indiani diretti a Occidente o di ritorno in India. Mercanti ma anche ? come scrive l’economista indiano, Premio Nobel, Amartya Sen ? filosofi, cercatori del vero che, a loro volta, si muovevano lungo le stesse rotte.
Il Kashmir è stato per lungo tempo un luogo buddhista (il quarto concilio buddhista si è svolto a pochi chilometri da dove si trova attualmente Srinagar, intorno al 70 dopo Cristo), ha sempre ospitato importanti e colti lignaggi brahmanici (lo stesso Pandit Nehru era kashmiro), poi ha iniziato a islamizzarsi nel sedicesimo secolo con migrazioni di maestri sufi dalla Persia, credo davvero si presti ad essere definito the hearth of Asia.

-Il libro allude ad altre suggestive ipotesi, per esempio quella per cui Pilato sarebbe stato un “complice” di un disegno voluto a salvare Gesù.
Sì, sono ipotesi anche corroborate da alcuni documenti apocrifi, ad esempio la lettera di Pilato a Tiberio.
Naturalmente sono ipotesi di cui è difficile dimostrare la veridicità.
E ancora, quella secondo la quale la Sindone sarebbe una prova valida della sopravvivenza di Gesù alla crocifissione.
Sulla Sindone mi sono limitato a riportare quanto scrive Holger Kersten nel suo testo Jesus lived in India (tradotto in italiano con il titolo La vita di Gesù in India). È un filone di ricerca immenso e complesso quello relativo alla Sindone e io, al momento, non mi sento competente per esprimere un giudizio circostanziato.

- Si parla, nel libro, anche di origine ebraica di afghani e kashmiri.
Si, è un altro filone interessante di ricerca. Si ipotizza che almeno parte dei membri delle disperse dieci tribù di Israele si siano, nel tempo, stabilite in quei territori. Probabilmente a seguito di successive migrazioni, a partire dall’ottavo secolo Avanti Cristo, a seguito della diaspora assira e, con una certa consistenza, nel 175 avanti Cristo, probabilmente a fronte della durezza e intolleranza del regno ellenistico, in Palestina, di Antioco IV Epifane.
Come scrivo alla fine del libro, è auspicabile che questo e altri filoni di ricerca vengono seguiti anche da istituzioni accademiche. Sarebbe buono, ad esempio, se venissero assegnate tesi di laurea su questi argomenti. Le ricerche, in una parola, debbono continuare e il drappello di ricercatori è auspicabile cresca e si diversifichi.

Fausta Genziana Le Piane


“ROSAFURIA”: E NON E’ UNO SCHERZO!

Vi consiglio di fare una bella passeggiata nel quartiere Coppedé, splendido esempio di liberty romano. Si tratta di un complesso di edifici situato a Roma, nel quartiere Trieste, tra piazza Buenos Aires e via Tagliamento. Pur non essendo propriamente un quartiere, venne così chiamato dallo stesso architetto che lo ha progettato. È composto da diciotto palazzi e ventisette tra palazzine ed edifici disposti intorno al nucleo centrale di piazza Mincio. Percorrete Via Tagliamento, nei pressi appunto della celebre piazza Mincio: scoprirete un negozio davvero particolare gestito da due sorelle, Maria Rosa e Ilaria, ed un fratello, Andrea, pieni di estrosità e creatività. Un ambiente dove sono esposti capi di abbigliamento (per il 90% provenienti dall’estero), oggetti di decorazione, piccoli complementi di arredo (per l’80% dall’estero).

-Chiedo a Rosa, portavoce della famiglia Giacomantonio, perché il negozio si chiama “Rosafuria”: in verità è il mio nomignolo del liceo dove mi chiamavano “furia”, l’ho mantenuto: corrisponde al mio carattere.
In effetti, Rosa è istintiva, passionale in tutto ciò che fa: dall’insegnamento –dove ha l’abilità di lasciare liberi nella creazione i suoi allievi, guidandoli senza forzarli mai- alla scelta degli oggetti da vendere. Si lascia prendere da furenti “coups de coeur”, colpi di fulmine subitanei per materiali, tecniche, fantasie.

-Com’è nata l’idea del negozio?
L’idea del negozio è stata un’evoluzione. Ho cominciato a lavorare con Paola di “Pepe Bianco”, vicina di negozio (anzi mi affittava una parte del suo negozio). Le facevo vedere i miei lavori e mi ha spronato ad insegnare le tecniche di decorazione. Sono diciassette anni che programmo corsi per adulti. Paola mi ha insegnato la pittura su porcellana, la sua specialità, anche se io l’ho in realtà rubata con gli occhi: questo è un segreto, bisogna rubare con gli occhi. Lo consiglio a tutti.

-Che studi hai fatto?
Sono autodidatta cosa che consente di essere veramente padrona dei materiali. Partendo dal fatto che non si hanno le basi e che non si sa come funzionano i materiali, si fanno tutti gli errori possibili. E poi, conoscendo tutti i difetti di una data materia, se ne diventa padroni. Da questo punto di vista essere autodidatti aiuta a conoscere di più i materiali, fondamentalmente.

-Quali corsi organizzate?
Organizziamo corsi per adulti a soggetto, con un progetto libero e corrispondente al suo gusto: realizziamo subito un oggetto che piace. Ho cambiato la formula perché il metodo classico è noiosissimo: tracciare tre righe per tre giorni di seguito è monotono, anche se è utile. In realtà le righe si fanno lo stesso con il disegno a piacere. La tecnica usata è quella per imitazione: praticamente mostro come si fa senza sostituirmi all’adulto. La maggior parte degli artisti non rivela la propria tecnica, sono gelosi, come nessuno dà la ricetta originale di un cibo. La giusta esecuzione fa parte di un’arte che poi si mette da parte, perché non fa di una persona un’artista. Poi, nell’anno riusciamo a organizzare due cicli per i bambini che sono sempre diversi e si ispirano sempre alla Storia dell’Arte, ad un artista in particolare oppure ad altro. Per esempio, i bambini realizzano la copertina di un CD o di un libro oppure il loro mondo ideale costruito tridimensionalmente (mondi di ballerine, di pesci, di violenza con coltelli, mostri ecc.). Cerchiamo di non censurare nulla.

-Quando hai preso in mano i colori per la prima volta?
Da sempre ho giocato con la fantasia da tutti i punti di vista. Per esempio, mia madre mi ha insegnato a ricamare ma ho messo da parte questa attività perché pensavo che non fosse creativa. Poi io e Andrea ci siamo messi a disegnare e ora mia madre lavora sui nostri disegni: magari mi fossi avvicinata al ricamo così dall’inizio! Sarebbe stato più divertente. Giocavo anche molto da piccola, giochi assurdi (all’Odissea, all’Iliade, ad Anna Frank): l’idea della creatività c’è stata sempre.

-Come scegli gli oggetti e gli abiti da vendere?
Secondo il gusto personale che però adatto al pubblico che nello stesso tempo deve essere stimolato. E’ molto importante andare per fiere: apre gli orizzonti. Leggo molto anche riviste e giornali: la nostra clientela cerca oggetti un po’ particolari.

-Hai realizzato mostre?
A Roma, ne ho promosse in vari luoghi: una sulla superstizione, una sullo spazio, le galassie e le distanze infinite, una sugli animali con delle caratteristiche tali per cui non si trattava dell’animale classico (per esempio il coccodrillo aveva sei zampe ecc), una sulle donne –Belladonna– ecc.

Fausta Genziana Le Piane

 


LE ILLUMINAZIONI DI NINA MAROCCOLO

-Victor Hugo affermava che “E’ l’oceano sondato, resta l’anima da sondare”, ti sei definita “ESPLORATRICE”: quale dei due è più facile da conoscere, l’oceano o l’animo umano? Come dice il grande scrittore portoghese Eça de Queiroz, quanto più profondamente l’uomo sonda se stesso, tanto più si riconosce insondabile?
Secondo la dottrina buddhista mahayana, quando si parla di oceano ci si riferisce all’oceano del samsara: il ciclo delle esistenze. E quasi mai è possibile tornare alla consapevolezza cosciente di quali siano state quelle remote… Ma è anche vero che la nostra piccola genesi si racchiude in questo oceano che può tramutarsi in “esistenza illuminata”. La vastità dell’oceano ci spinge a considerarlo in senso figurato, ovvero abissale, profondissimo com’è il nostro inconscio; ma che esso contenga anche l’Anima, credo di sì.
Più esploriamo, più entriamo in contatto con realtà che si prefigurano oggetto di ricerca delle origini – tanto più l’insondabilità diviene meno aspra.
Per me Oceano e Anima sono entrambi oggetto di questo “andare”: pariteticamente.

-Finalmente con te quello che mancava – ma ormai per poco - in letteratura: una genealogia al femminile. Il tuo libro è pieno di figure femminili di riferimento…
Ho sempre tenuto a raccontare la grande Storia e perfino il Mito ripercorso da parte femminile. Il fondamento di questa “genealogia” matrilineare è presente nell’opera teatrale di Eschilo, la trilogia “Orestea”. Meglio specificare che si tratta di quel passaggio dalla condizione di Erinne a quello di Eumenide. Questa trasformazione, evoluzione duale direi necessaria, attraversa interamente i personaggi femminili di Animamadre. Può accadere anche il contrario, e nella costruzione romanzesca è stato per me anche più interessante: le Eumenidi che si ritrovano ad essere persecutrici erinniche.
“In fondo, vi consolerebbe se fossi una creatura malevola. Oh, se consolerebbe! Farebbe risvegliare le vostre lacune d’ombra in soleggiate motivazioni”… intona quello che considero il personaggio più bello del romanzo, Carmela detta La donna di pece. Eumenide per eccellenza. Amore votato al sacrificio.

-Non sono totalmente d’accordo con Giuseppe Berto nella sua interpretazione della celebre frase di Flaubert “Madame Bovary sono io”. Il grande scrittore francese intende dire che Emma esprime la sua parte femminile. E si conosceva molto bene…ed è tanto vero quanto è vera Emma. Quale è il tuo maschile? Tuo padre? Il dottor Negro?
L’Anima è femminile, non ha forma né tempo. Ne assaporiamo la vastità.
Qui entra in gioco un altro fattore che è l’identità. Secondo Jung l’Io che si manifesta primariamente è quello corporeo: solo in un secondo momento – intorno all’età bambina dei quattro/cinque anni – si comincia a dire “Io” o “Me”; altrimenti dall’atto della nascita non vi sarebbe nessuna condizione dell’esistenza di un Io.
Quest’ultimo è come un edificio in continua costruzione: ma senza averne una fine.
In questo contesto considero Flaubert illuminante, quando si rispecchia in Emma parte femminile della sua Anima. Ma non tralascerei il discorso identitario…
La mia parte maschile è facilmente plausibile, e detiene la sua interezza in ciascun uomo che entra o esce dalla scena. Fausta, è dolorosa questa domanda!
Senza sottrarmi potrei dire che forse è mio padre: colui che è stato danneggiato, poi danneggerà a sua volta. Ma penso, e mi auguro, che il mio maschile sia il Dott. Negro... Lui accoglie aspetti positivi ed etici, si prende cura di chi soffre, accede ai malesseri altrui in modo delicato ma fermo, ha precise convinzioni: è colui che manifesta e opera il Bene.

-Quanto è importante per te il dubbio?
È la marcia. Il passo veloce. Camminare senza una meta precisa, sapendo che non arriverai mai perché in ogni passo puoi trovare semi di verità, la tua verità, e altri che ti costringeranno a ripensare se quella verità lo è davvero. È qui che accedo al profondo, che nulla rivela in forma indolore…
Scrivo in Animamadre: “Si è costretti ad oltrepassare il dubbio, l’incertezza, traendo dall’inconoscibile il reale spaventoso. La scrittura è degli irriconciliati”.
Il dubbio non dovrà mai diventare nevrosi.

-Ed il silenzio?
Certo che è importante! È una forma meditativa, un ristoro, sono lunghe pause per ritrovare un baricentro perduto. Dico perduto, perché la scrittura porta al facile funambolismo, non essendo un’attività proprio conciliativa ma di apertura ai varchi e talvolta agli abissi.
Silenzio è preghiera.

-Il tuo libro è ricco di metafore, simboli, archetipi. Vorrei soffermarmi su quella delle scarpe, “bene prezioso” (p. 58). Hermes è un dio calzato, poiché ha preso possesso legittimo della terra dove cammina: desideri prendere possesso della terra dove cammini? Simboleggia per te anche il viaggio? Le tue scarpe sono sfuse, spaiate: manca l’intesa, l’armonia con gli altri? La scarpa era per gli Antichi un segno di libertà: a Roma gli schiavi andavano a piedi nudi. Anche per te le scarpe rappresentano la libertà?
No, non credo di nutrire la necessità di possedere qualcosa, anche fosse la terra dove cammino. In me il concetto di “possesso” non esiste, ma quello di libertà sì. Le scarpe contengono, innanzitutto. E Freud dava una connotazione sessuale all’oggetto che contiene un altro oggetto, come nel corpo umano gli orifizi.
Con le scarpe spaiate tendo a sottolineare una sessualità incompleta, una sorta di armonia che viene a mancare fra due persone. Sicuramente tratteggia anche una difficoltà con gli altri, probabilmente di comunicazione.
Ce n’è fin troppa, oggi, di comunicazione: e l’eccesso porta a distanza le persone. Spesso si comunica anche male e le scarpe stanno strette, e non solo a me. Forse ne sono consapevole, questa è la mia fortuna. Eppure vorrei saper raggiungere l’altro da me: nel cammino, spesso, resto indietro…

-“La memoria è l’essenza delle cose”: è anche la cassaforte dove attingere nei momenti dolorosi della vita, come dice Almodovar?
Assolutamente sì. In ogni momento della vita, da quello doloroso a quelli lieto.
La scrittura, si sa, ben oltre Proust, propizia la ricerca, il rito del tempo perduto e poi ritrovato. Straordinaria cassaforte, e Almodovar la sa lunga… Il problema è un altro: che molte volte, i preziosi contenuti della memoria perdono valore, o stranamente ne acquistano.
La memoria – anche pubblica, collettiva – è uno dei valori che più dovrebbe essere difeso, perché ci aiuta nel presente in cui frammenti inconsapevoli del futuro germinano.

-Per usare il titolo di un celebre libro di Marie Cardinal, tu hai trovato “le parole per dirlo”. Le parole salvano e il tuo linguaggio è forte, simbolico: scarti sempre “la parola superflua”? E quale è la parola superflua? Il troppo? Che rivela “intime debolezze” (p. 25)?
Le parole salvano ma possono anche dannare. L’uso del linguaggio è una responsabilità da cui non si può prescindere. Sai perfettamente che incontri qualcuno che leggerà un tuo libro, e ricordarsi di questo “qualcuno” è un tramite per arrivare a dialogare intimamente con lui… La parola non potrà mai essere casuale, e niente deve spingere uno scrittore ad essere compiacente di (e con) se stesso. L’orgiastica grammatica della rivelazione può far emergere un sentimento di “potenza” che non va ascoltata; immediatamente trattenuta – si distrugge.
Diventa pericoloso, e il troppo dire – l’uso smodato, irresponsabile o addirittura propagandistico del linguaggio (guardiamo alle dittature ideologiche del Novecento) – alimenta una fragilità travestita da vuoto. Il vuoto della Volontà di Potenza.
Questa è l’“intima debolezza”.

-Parliamo ancora dello stile: lo trovo innanzitutto un libro ben scritto, cosa molto rara di questi tempi, ma non solo. La coscienza e l'irrazionale si sovrappongono.
Come nella vita. Siamo figli di una causa e del suo effetto: può anche capitare che l’effetto si manifesti prima della causa. Così la diade Coscienza-Non Coscienza: confini molto labili, per ciò affascinanti. Amo profondamente indagare sia l’una che l’altra: la scrittura permette di spaziare, è un’arte che necessita di disciplina, dunque la libertà va saputa gestire.
I primordi che non conosciamo dell’inconscio ci portano a un livello di recezione tanto più intensa quanto più lo sai ascoltare. Non esiste un metodo (l’ipnosi?), ma l’ascolto (recedere alle proprie origini è sempre una grande sfida).
Credo che il segreto sia saper ascoltare segni e incognite. Porsi risposte ancor prima delle domande.
Lo stile è una conquista.

-Che ruolo ha la tua competenza musicale nell’ordito dello scritto: “sillaba sonora”?
Sono cresciuta con la Musica. Canto.
Questi sono aspetti determinanti sia della mia formazione che della mia struttura creativa. Scrivere è musica. Ogni mio elaborato è frutto di una filigrana musicale, la chiamo “partitura”; e nella sua composizione divento maniacale.
Si deve sentire il suono, i suoni, i flauti, le cavità baritonali, le note soprane, le pause: si tratta di un pentagramma riproducibile dell’opera stessa.
Animamadre non è soltanto un libro da leggere, ma – soprattutto – da ascoltare.
Un giorno lo porterò davvero su partitura “ufficiale”.

-Per te “la letteratura non è gioco, non è un soprammobile, non è un paravento” (p. 173): l’arte è un “nido”? Una “perdita”? Una fuga (Henri Laborit)? Questo insieme di definizioni ed altre ancora?
Tutto insieme. Vorrei che non fosse una fuga, ma la base per affrontare i problemi che ci attanagliano. Nido neanche: è comodo e caldo, poi bisogna pur svolare.
La letteratura è la sutura di una ferita, la ricomposizione di una perdita. Salvezza e Redenzione. Laiche, sia ben chiaro.
La fede è mistero privato.

-Che cosa devono fare “le femmine per non avere un destino triste” (p. 26)?
Bella domanda! Le protagoniste di Animamadre sono quasi tutte tristi.
C’è una tristezza che insorge come impriting ereditario, e karmikamente non si può far nulla. Studiando su me stessa e dialogando con psicologi, emerge il dato dell’infelicità che è il ricamo sul mio pollice identitario. L’insufficienza degli affetti, dell’essere amata, sentire costantemente l’abbandono… ci provo da tempo a superare, a far saltare in aria questi fossili: l’unica cosa che funzioni davvero è amare gli altri, dedicarsi agli affetti, non lasciare mai solo qualcuno. Un’energia benevola: quella virtù cardinale che nel buddhismo del Grande Veicolo viene chiamata Compassione.
In senso meno personale, credo che la donna debba recuperare la sua natura femminile, femminea, senza troppo innalzare barricate neo-femministe o creando antagonismi con il maschio e –soprattutto– non scimmiottandolo.
Non sono una conservatrice, la donna deve essere rispettata: nei diritti civili, lontana dagli abusi, non preda di stupri, violenze e delitti efferati. È ovvio che emerga una forza difensiva, e la creatura femminile va difesa e riportata all’attesa del Nuovo. Un destino nuovo, più giusto, più libero.

-Hai incontrato Alejandro Jodoroswsky (importanza della genealogia), un personaggio eclettico che ha attinto a svariate culture creando un modo personalissimo di affrontare le proprie paure. C’è un atto magico tutto tuo che ti ha aiutato?
In ogni istante e istinto dell’arte c’è un atto magico. È il sogno, l’avvenire alchemico.
Un personale “Cabaret Mistique” in solitaria.

-La tua scrittura è rimbaldiana e non a caso citi Rimbaud: “La tua quartina (…) s’immerge in boschi di sangue / e ne risale” (p. 206): nel corso della tua “stagione all’inferno”, ti sei fatta veggente. Come sei risalita?
Forse riaddentrandomi nel mito, risalendo l'archetipo, la psicologia, la cultura poetica che indaga l'altrove al quale non mi sottraggo... Non dico di inseguire la veggenza del “fanciullo dalle suole di vento”, ma sicuramente mi propongo un approdo e insieme un’implosione delle nascoste immagini interiori.
Sono considerazioni, le tue, che accompagnano la mia fede in visioni nuove, incrementando quella pura forza meditativa che dall'Io si accende in fiamma inestinguibile del Noi. Da qui l'origine di ogni vero approccio alla scrittura.
Senza l'altro difficilmente esisterebbe una felice collocazione dell'Io nel mondo. La sua compiutezza accade in "insieme".

Grazie, cara Nina, per averci permesso di entrare nel tuo mondo e di averci dato la possibilità di conoscerti un po’ meglio.

Fausta Genziana Le Piane

LE DATE DI UNA VITA

Nina Maroccolo, Massa 1966. Cresciuta in Sardegna da bambina, approdata a Firenze nel ‘75 – dove ha studiato Arte e Musica – vive e lavora a Roma dal 2004. Scrittrice, cantante e performer, autrice di testi teatrali, interprete, artista visiva. Lavora a recital, perfomances, improvvisazioni, azioni sceniche, teatralizzazione di testi. Sono i “Canti per voce nuda”. È membro della Factory AL-KEMI lab; redattrice dei blog collettivi “NEOBAR”.

Pubblicazioni
IL CARRO DI SONAGLI (City Lights Italia 1999); ANNELIES MARIE FRANK (Empirìa 2004, 2a ed. 2009), con una lettera di Alda Merini; FIRENZE-ROMA (Pulcinoelefante 2004), a cura di Eric Toccaceli; DOCUMENTO 976 - Il processo a Adolf Eichmann - (testo drammaturgico tratto dalla silloge di teatro contemporaneo “Qui e Ora”, Nuova Cultura, Roma 2008), con prefazione di Fabio Pierangeli e Roberto Mosena; MALESTREMO (Le Reti di Dedalus 2008); ILLACRIMATA (Tracce 2011), con saggio introduttivo di Paolo Lagazzi; UN ANGELO DI FARINA – Cinque liriche e una ballata - (Lepisma 2011); S’IMPALPITI MATERIA – Omaggio a Giacomo Manzù – libro-oggetto d’arte a tiratura limitata (Edizioni d’Arte Musidora 2011). Contributi letterari del gruppo sinestetico “perIncantamento”. Introduzione di Marcella Cossu, Direttrice della Raccolta Manzù di Ardea, e saggio critico di Plinio Perilli; ANIMAMADRE (Tracce 2012), romanzo: prefazione di Fabio Pierangeli, postfazione di Ubaldo Giacomucci.
In corso di pubblicazione MALESTREMO – Sedici viaggi nell’Altrove, introduzione di Marco Palladini, a concludere la Trilogia dal titolo I POSTERI DEL MODERNO (Illacrimata, Animamadre, Malestremo).
È presente in numerose antologie. Ricordiamo la più recente : “L’evoluzione delle forme poetiche – La migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012)” (Kairós 2013), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio Spagnuolo; “La Fede” (EdiLet 2013), a cura di Marco Onofrio e Stefania Severi.

Musica e Canto
Numerosi i suoi concerti, le performances e i recital. Tra le sue pièces teatrali, interpretate e cantate, ricordiamo almeno la “Salomè” (da Oscar Wilde), “Annelies Marie Frank” (dal suo libro omonimo), e l’estemporanea “Partitura per ferro e terra” dedicata all’opera dello scultore Jaume Plensa. La sua attività musicale è inoltre inclusa in “I Love Rock ‘n’ Roll – Storia del rock italiano”, a cura di Raffaele Palumbo ed Ernesto De Pascale (Giunti 2009).
“Nastro – Omaggio a Giacomo Manzù” (Salone del Libro, Auditorium DM, Torino 2012), cortometraggio per voci recitanti, elettronica, corto / videoarte. Regia di Istvàn Horkay, musica di Daniele Venturi. Testi poetici di Nina Maroccolo, Plinio Perilli e Faraòn Meteosès.

Fausta Genziana Le Piane

 


INTERVISTA A GIUSEPPE CALCERANO

Giuseppe Calcerano è nato a Giarre, in provincia di Catania, e si è laureato ingegnere nell’Università di Genova. E’ stato progettista di grandi opere infrastrutturali e ha coordinato, tra l’altro, il progetto del tunnel del Gran Sasso. Per un trentennio è stato Dirigente d’Azienda, sempre nel campo delle grandi opere ed è stato docente universitario del corso di Progettazione di Strutture.
Ha scritto numerose pubblicazioni nel campo dell’ingegneria, ma ha finora tenuto per sé l’amore per la letteratura e la musica e le riflessioni derivanti dalla sua incontenibile curiosità per la scienza.

-Che cosa ti ha spinto a pubblicare “Il Supermondo”?
A fianco della mia attività professionale ed accademica, da sempre, ho scritto (per me stesso) qualche racconto, magari autobiografico, qualche poesia, qualche cronaca (da studente ho esercitato anche l’attività di cronista); inoltre, spesso gli amici, avvertendo una certa dose di fantasia nei miei racconti di vita vissuta, mi hanno esortato a fissare sulla carta le affabulazioni che, forse con un certo spirito ironico, mi divertivo ad esporre nelle conversazioni da salotto; l’ultima occasione fu l’avvenuta conferma dell’esistenza del Bosone di Higgs (la cosiddetta “particella di Dio”) che permette agli studiosi di fisica di spiegare in qual modo nell’Universo dall’Energia Pura si sia generata la Materia cioè, in pratica, come si è generato il Mondo che conosciamo (attenzione “come”, non per opera di chi); fu così che, con un ragionamento semiserio in una chiacchierata da salotto, mi parve si potesse sostenere seriamente che non può non esistere, al difuori dell’Universo, un “Supermondo” (eterno e senza tempo) che lo contiene come un “passatempo di robot” ideato ironicamente proprio per attutire la noia dell’eternità; l’idea fece sorridere e pensare ed io decisi di pubblicarla, aggiungendo un paio di racconti autobiografici (ovvero sulla vita di un robot).

-Che cos’è per te la scrittura?
La scrittura è, per me, uno dei principali mezzi di comunicazione a disposizione degli uomini, che dobbiamo coltivare perché l’uomo riesca a trasmettere il suo pensiero nei modi più semplici e diretti e, perché no, con piacevole scorrevolezza.

-La scrittura è memoria?
Certo, la scrittura serve per comunicare, ma anche a custodire le idee e i pensieri trasmessi all’atto della stessa scrittura.

-Percepisci nella scrittura influenze legate alle tue origini meridionali? Quali?
Certamente, ognuno si porta dietro le influenze e persino gli imprinting degli ambienti in cui ha vissuto e si è formato; ciò tanto più in quanto l’ambiente nel quale hai vissuto i primi anni della tua giovinezza è quello di una Regione come la Sicilia che è il risultato di una stratificazione di culture plurimillenarie.

-C’è relazione tra progettare una strada e progettare un libro?
Per me assolutamente no ! La progettazione di una strada è un’attività tecnica che discende dalla messa in opera di criteri deduttivi tecnico-scientifici: Si tratta di collegare un punto A ad un punto B nel modo più conveniente e stabile possibile, tenendo conto di tutte le caratteristiche del territorio compreso tra A e B quali: morfologia, caratteristiche e stabilità del terreno, considerazioni sugli interventi antropici esistenti. Un libro si sviluppa intorno ad una idea di qualcosa che si vuol comunicare e del modo in cui lo si vuol comunicare ma, ripeto secondo me, lo scrittore deve procedere secondo un canovaccio per seguire le idee che, a mano a mano, sgorgano dalla mente e devono, soltanto, esser promosse o bocciate.

-Quanto rigore serve? Quanta fantasia?
Molta fantasia e tanto rigore: La fantasia è prioritaria perché produce l’idea generale e consente di procedere nello sviluppo delle singole vicende senza cadere nella banalità. Il rigore è indispensabile per evitare di essere eccessivamente indulgenti nei confronti dei propri difetti di scrittura, che dobbiamo aver imparato a conoscere.

-Che cosa aggiunge al ritmo della tua prosa la conoscenza della musica: aiuta?
Ringrazio per questa domanda. Non avevo riflettuto su questo: alcune cose ti sembrano naturali e non te le poni coscientemente. Ora, costretto a riflettere, non ho dubbi: io credo nella scrittura scorrevole ed armonica e, soprattutto, priva di fronzoli inutili. Credo nella bellezza di una frase che accarezza l’orecchio come una musica. Specialmente quando la si definisce poesia.

-L’uomo è un robot? Programmato per che cosa?
L’Universo (quello finito nel quale siamo direttamente immersi – non l’infinito che sicuramente contiene l’Universo) serve a qualcosa? Dal nostro punto d’osservazione non lo possiamo capire. Forse da quell’ “Infinito che lo contiene” lo si potrebbe capire, ma a noi non è dato farlo. A me è parso lecito poter scherzare ( per sdrammatizzare ) e dire: l’Universo è un giuoco dell’ “Infinito” che, essendo senza tempo (ovvero essendo il limite matematico ipotizzato da Einstein), ha generato un ambiente in cui esiste il tempo e vi ha inserito i robot per non annoiarsi (una contraddizione voluta ironicamente). Gli uomini-robot farebbero dunque bene a darsi meno importanza….e vivrebbero meglio !

-“Nel Supermondo dell’energia e dell’intelligenza pura, il dolore e il piacere non esistono” (p. 23): ci spieghi meglio cosa intendi dire?
Secondo la Teoria della Relatività Generale di Einstein (che, ricordo, è provata) nel nostro Universo lo scorrere del tempo non è uguale per ogni cosa ma dipende dalla velocità con la quale la detta cosa si muove. Più è veloce più lento scorre il tempo e, addirittura, il tempo si ferma se la velocità raggiunge il valore della velocità della luce. A questa velocità (limite irraggiungibile) la cosa diventa dunque eterna. La nostra intuizione di un Dio eterno, quindi, può essere collocata solo in un Supermondo esterno all’Universo. Là tutto è eterno e (ironicamente) non è lecito parlare di pazienza (lo spazientirsi essendo un concetto legato al tempo). Infatti Dio non si spazientisce e…non si occupa di noi…se non per giocare.

-Credi nel libero arbitrio?
Nei limiti consentiti dal nostro hardware e dal nostro software, possiamo agire come vogliamo. Consapevoli della nostra scarsa importanza, è per noi conveniente generare la minore entropia possibile (non solo in senso strettamente scientifico, ma anche in senso morale) le nostre azioni disordinate, infatti, non fanno che danneggiare noi stessi.

Fausta Genziana Le Piane

 


DONNE A VERONA

Paola Lanaro è professore ordinario di storia economica all’università Ca’ Foscari di Venezia dal 1999.
Materie d’insegnamento: Storia Economica, Storia dell’Impresa, Storia Economica Regionale. E’ membro del comitato scientifico del dottorato interateneo in Storia delle Arti. Con Franco Amatori dirige per Marsiglio la collana di Studi di storia economica e di storia dell’impresa. E’ invitata regolarmente all’ehess per corsi di storia della famiglia e storia economica dove ha trascorso lunghi periodi come visiting professor. Nel 2011 è stata visiting professor alla New York University. Si occupa di storia economica dell’età preindustriale con particolare riferimento al caso veneziano. Ha pubblicato saggi nelle riviste Renaissance Studies, Journal of Urban History, Histoire Urbaine, Revue d’histoire moderne et contemporaine, Quaderni Storici, Società e Storia, Annali di Storia dell’Impresa.
Tra le sue ultime pubblicazioni: All the Centre of the Old World per Centre for Reformation and Renaissance Studies – Toronto 2006, I Mercati nella Repubblica Veneta per Marsilio 1999, Donne a Verona per Cr Edizioni 2012.
Con Franco Amatori coordina i seminari di Stori Economica presso l’Università Bocconi. E’ vicepresidente dell’Aisu e membro dell’Ateneo Veneto e dell’Accademia dell’Agricoltura di Verona.
La mia intervista prende spunto dall’interessantissima e recentissima raccolta di saggi intitolata: Donne a Verona, Cierre Edizioni, 2012

- Com’ nato il progetto di questo libro? E la tua collaborazione con Alison Smith?
Alison Smith è una mia carissima amica e a lei ho proposto il progetto del libro che mi è nato nel cuore e nella mente come risposta ad una cultura politica di assoluta mancanza di rispetto nei riguardi delle donne.

-Dedichi un capitolo al tema della dote (Il circuito femminile della ricchezza a Verona tra basso medioevo ed età moderna doti ed eredità-secoli XV-XVIII), una delle leve fondamentali su cui poggiava l’autonomia della donna in età premoderna, ma il suo ruolo resta distante dal palcoscenico politico… La capacità di gestire beni in prima persona dalle stesse donne, come citato, non accade ovunque?
Il caso veneziano, e quindi anche in parte veneto, è noto costituiscono un’eccezione in campo europeo ed anche all’interno degli antichi stati della penisola italiana. La gender history sottolinea l’importanza accanto ad una storia politico istituzionale forte che vede come protagoniste figure maschili una storia privata contrapposta a quella pubblica con al centro generalmente le donne: questa storia basata sulla costruzione di una rete di relazioni non ha un peso inferiore a quella pubblica politico/istituzionale e proprio in questi ultimi tempi grazie a recenti posizioni storiografiche internazionali cominciamo a conoscerne il peso.

-Pensi che si possano scrivere storie come queste per altre città italiane?
Certo è possibile anche per altre città scrivere storie analoghe a questa anche se il lavoro storico deve essere in gran parte compiuto.

-Come giudichi la posizione della donna nel mondo di oggi? Quali difficoltà incontra una donna nel mondo universitario?
I passi compiuti dalla donna in questi ultimi anni in tutti i campi sono notevoli; forse la società italiana non ha ancora espresso un adeguamento alla nuova cultura, adeguamento che invece altre società del mondo occidentale hanno manifestato in modo più maturo. All’interno del mondo universitario alcune Facoltà sono dominate da figure maschili, altre invece rivelano un andamento più equilibrato anche se in linea di massima sono le posizioni non di vertice ad essere occupata dalle donne. Va però sottolineato come tutto sia in questi ultimi tempi in movimento.

- Che cosa pensi che bisogna cambiare? Come?
Con questo libro dedicato alle mie studentesse ho voluto insegnare loro che non esistono percorsi facile o scorciatoie né oggi come non lo era in passato e che solo l’impegno ed una seria professionalità possono aiutare le donne a conquistare quegli spazi che è giusto loro possano occupare.

-Quale è la tua genealogia femminile cioè quali donne ti hanno ispirato?
Veramente sono i valori che mi ha trasmesso mio padre di serietà ed impegno ad ispirarmi costantemente, valori comunque che mia madre ha sempre permesso e contribuito affinché si esprimessero in modo pieno nella nostra famiglia.

- Che cosa significa per te scrivere?
Amo il mio lavoro, la ricerca e lo studio: scrivere è trasmettere alle generazioni future quello che ho accumulato nel tempo con gioia e sacrificio.

- Che cos’è per te l’infinito?
I bianchi ghiacciai delle montagne più alte dove l’infinito è sfiorato dalla mano di Dio.

Fausta Genziana Le Piane

 


In vacanza con la storia: crociera sul Nilo

GABRIELE, IL VOLTO DELL'EGITTO DI OGGI, TRA PASSATO E FUTURO

Quanti di noi hanno sognato sulle pagine dei libri di storia studiando le vicende degli antichi Egizi, il mistero delle piramidi, i segreti dell’al di là, la maledizione della tomba di Tutankhamon, pensando di poter un giorno vedere dal vivo i templi di Abu Simbel o le tombe della Valle dei Re o i Colossi di Memnon?
Ebbene, ho avuto la fortuna di poter effettuare nel mese di maggio, una crociera sul Nilo alla scoperta di questo antico popolo e del glorioso passato del fiume Nilo.

Questo fiume, che nasce dal Monte Gikizi e sfocia nel Mediterraneo, scorre nella sezione settentrionale quasi interamente attraverso il deserto, dal Sudan all'Egitto, un paese la cui civiltà è dipesa dal fiume fin dai tempi antichi e più remoti. La maggior parte della popolazione egiziana e tutte le sue città (con l'eccezione di quelle situate lungo la costa) si trovano lungo la valle del Nilo a nord di Assuan, e quasi tutti i siti storici e culturali dell'Antico Egitto si trovano lungo le rive del fiume. Infatti il Nilo rende fertile le pianure delle sponde lasciando dall’altra parte le dune sabbiose del deserto lambire i confini dei campi lavorati. Il fiume è lussureggiante nello sciorinare la sua vegetazione, palme da dattero, sicomori, acacie coloratissime, e la sua fauna, bianchi aironi e anatre: dalla larga finestra della cabina della motonave sembrava di assistere ad uno spettacolo cinematografico.
Partendo da Milano, il volo ci ha portati a Luxor sulla Lady Mary che fa parte della flotta proprietà della Flash Tour, che ha altre sette motonavi. La nostra motonave è stata varata alla fine di maggio del 2004, è lunga 72 metri, larga 15, alta 11,50, ha un pescaggio di 1,7 metri raggiunge una velocità tra i 12 e 18 metri l’ora, ha 70 cabine, ha 65 dipendenti. Durante i pasti, poiché il ristorante si trova al piano più basso, ci siamo trovati al livello dell’acqua… E’ stato impressionante!
A bordo hanno regnato gentilezza da parte del personale e organizzazione impeccabile, tutto per rendere gradevole il soggiorno dei turisti: dal servire il tè o il caffè con pasticcini oppure pizza sul ponte alla serata araba e alle manifestazioni folkloristiche al bar.
La nostra guida si chiama Gabriel, splendido pifferaio magico che ci ha condotto attraverso le mirabili pietre dei luoghi magici della storia del suo Paese: il Tempio di Luxor, il viale delle Sfingi, le tombe della Valle dei Re, i templi di Abu Simbel, Ramesse III, Philae, Edfu, Karnak, Esna, la diga di Asswan, il Lago Nasser e i suoi grandi coccodrilli, l’isola Elefantina e la tomba dell’Aga Khan, il colorato villaggio Nubiano.

Il tempio di Abu Simbel, che si trova nel governatorato di Assuan, sulla riva occidentale del Lago Nasser, è uno dei più belli. Il complesso è composto da due enormi templi in roccia ricavati dal fianco della montagna dal faraone Ramses II nel XIII secolo a.C., eretti per intimidire i vicini Nubiani e per commemorare la vittoria nella Battaglia di Kadesh. Il sito archeologico fu scoperto nel 1813 dallo svizzero Johann Ludwig Burckhardt ma quasi completamente ricoperto di sabbia, fu violato per la prima volta nel 1817 dall'archeologo italiano Giovanni Battista Belzoni. Sulla facciata spiccano le quattro statue di Ramsete II, ognuna delle quali alta 20 metri, in ognuna il faraone indossa le corone dell'Alto e del Basso Egitto, il copricapo chiamato "Nemes" che gli scende sulle spalle ed ha il cobra sulla fronte. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole, la madre e la moglie Nefertari mentre tra le gambe ci sono le statue di alcuni dei suoi figli, riconoscibili dai riccioli al lato del capo. Sopra le statue, sul frontone del tempio ci sono 14 statue di babbuini che, guardando verso est, aspettano ogni giorno la nascita del sole per adorarlo. Una delle statue di Ramses è rimasta senza testa, infatti questa è crollata pochi anni dopo la costruzione del tempio a causa di un terremoto ed è rimasta ai piedi della statua. Nel crollo ha distrutto alcune delle statue più piccole che si trovavano nella terrazza del tempio, si tratta di rappresentazioni dello stesso faraone e del dio Horus (falco). Sopra la porta di entrata del tempio in una nicchia scavata nella roccia, c'è la statua del dio Ra' Ho Akthi, è il dio falco unito al disco solare, la mano destra del dio poggia sullo scettro indicante trasformazione, detto WSR, mentre la sinistra poggia sull'immagine della dea Maat rappresentante la giustizia. Questi due simboli uniti al disco solare Ra' si ritrovano nel cartiglio di incoronazione di Ramsete II, quindi il faraone vuole indicare che il tempio è dedicato sia al dio che a sé stesso. Ai lati della nicchia ci sono due altorilievi raffiguranti il faraone mentre fa offerta del simbolo della giustizia al dio. Ai lati delle statue poste presso l'ingresso ci sono delle decorazioni, c'è Hapy dio del Nilo, simbolo dell'abbondanza, che lega fiori di loto, simbolo dell'Alto Egitto, con i fiori di papiro, simbolo del Basso Egitto, per dimostrare l'unione del paese. Sotto queste scene, nel lato destro, sono rappresentati dei prigionieri asiatici legati con corde che terminano con il fior dei papiro, simbolo del Nord, mentre nel lato sinistro, sono rappresentati dei prigionieri africani legati con corde che terminano con fiori di loto, simboli del sud. L'entrata del tempio conduce alla grande sala dei pilastri, otto dei quali raffigurano il faraone con sembianze di Osiride, si tratta di statue alte 11 metri. Nel soffitto ci sono disegni incompiuti che rappresentano la dea Mut, che protegge il tempio con le sue ali distese. Le pareti della sala nel lato destro sono ricoperte di scene che rappresentano la vittoria di Ramses nella battaglia di Kadesh combattuta contro gli Ittiti. Nel lato sinistro ci sono altre imprese di Ramses. Da qui si entra nella sala più piccola del tempio, detta dei nobili, con quattro pilastri quadrati coperti da rilievi raffiguranti il faraone con varie divinità. Sulle pareti c'è il faraone mentre offre profumi ed incensi alla barca di Amon, seguito dalla moglie, la regina Nefertari. Questa sala conduce al Sancta sanctorum. Da sinistra Ptah, Amon-Ra, Ramses II deificato e Ra. Il Santuario contiene quattro statue sedute che guardano verso l'entrata, che a sinistra a destra raffigurano Ptah (dio dell'arte e dell'artigianato), Amon-Ra (dio del sole e padre degli dei), Ramses II deificato e Ra (il falco con il disco solare).

All'epoca queste costituivano le divinità più importanti del panteon egiziano. Qui, grazie all'orientamento del tempio calcolato dagli architetti, due volte all'anno, il 21 febbraio, il giorno della nascita di Ramses II, ed il 21 ottobre, giorno della sua incoronazione il primo raggio del sole si focalizza sul volto della statua del faraone. I raggi illuminano parzialmente anche Amon-Ra e Ra-Harakhti. Secondo gli antichi egizi i raggi del sole avrebbero così ricaricato di energia la figura del faraone. Il dio Ptah considerato dio delle tenebre non viene mai illuminato. Dopo lo spostamento del tempio non si è riuscito a replicare questo fenomeno.
A nord del tempio maggiore, a un centinaio di metri, si trova il tempio, scavato nella roccia, dedicato ad Hathor ed a Nefertari moglie di Ramses. La facciata è ornata da sei statue alte 10 metri, tre ad ogni lato della porta di ingresso. Le statue raffigurano quattro volte Ramses e due Nefertari. Ai lati delle statue del faraone ci sono i figli in dimensioni minori, mentre ai lati di Nefertari sono raffigurate le figlie. È l'unico tempio egizio dove una regina ha la stessa importanza del faraone. L'entrata del tempio conduce ad una sala contenente sei pilastri alti 3,20 metri sulla cui sommità vi sono le teste di Hathor. Sui pilastri ci sono iscrizioni che raccontano la vita del faraone e della regina e rilievi colorati che rappresentano sia Ramses che Nefertari con alcune divinità. Alle pareti vi sono scene del faraone e della moglie che offrono sacrifici agli dei. L'ultima sala è quella con la statua della dea Hathor.
Con la testa rivolta al soffitto, gli occhi estasiati dalla bellezza delle immagini circostanti, dalla grandezza e maestosità delle dimensioni delle statue, noi visitatori ci immergiamo in un mondo retto da una affascinante simbologia, complessa e poetica, che cerchiamo di capire. Gabriel si emoziona nel parlare di questo tempio e ci trasmette il suo amore. Approfitto per porgergli alcune domande.

-Dove sei nato, Gabriel?
A Luxor.

-Com’è la situazione di questa città oggi?
Da quando c’è stata la rivolta, il panorama è incerto perché le attività sono principalmente nel campo turistico e tanti negozi sono chiusi, molte motonavi ferme, gli alberghi sono vuoti: stiamo aspettando l’arrivo del nuovo Presidente.

-Come mai hai studiato la lingua italiana e ti sei così appassionato alla nostra civiltà?
Ho sempre avuto contatti con gli Italiani, ho lavorato con un’impresa milanese di costruzioni a Luxor, quella che ha eretto lo Sheraton.

-Ti rechi spesso in Italia?
Sì, perché conoscere l’Italia mi aiuta anche nel mio lavoro: spesso faccio paragoni, anche se non è giusto.

-Come vedi il futuro del tuo Paese?
Spero che sarà meglio di prima: è normale che dopo ogni rivoluzione ci sia disordine, caos, però l’uomo deve ritornare alla sua normalità. E il carattere dell’egiziano è di amare l’ordine, la parità, la giustizia, la pace. E’ anche un popolo ambizioso: il governo in passato l’ha un po’ abbandonato, avrebbe dovuto stimolarlo. Vedo che quelli che hanno avuto occasioni oppure sono emigrati all’estero hanno avuto successo perché hanno lavorato e hanno trovato chi apprezza il loro impegno e sono stati anche ben pagati. L’Egitto è un Paese moderato, ha un ruolo molto importante per tutti i Paesi Arabi, che aspettano che noi superiamo il nostro problema e otteniamo un Presidente che governi tutti gli Egiziani per i Nubiani, i Musulmani, i Cristiani, i Beduini, e non solo una categoria.

Kifaya è oggi il contenitore di molta dell'insoddisfazione al regime di Mubarak. Dai liberali agli islamisti, dagli ex marxisti agli antiamericani. Cairo non è ancora come Beirut, ma il paesaggio egiziano si sta facendo più mosso. A seguito delle sommosse popolari in Egitto del 2011, il 12 febbraio 2011, il Presidente Mubarak si è dimesso. Il Primo ministro Ahmed Shafiq, da lui nominato, è rimasto in carica fino al 3 marzo 2011: giorno in cui si è insediato il nuovo primo ministro Issam Sharaf, scelto dal Consiglio supremo delle forze armate, per traghettare l’Egitto al referendum sugli emendamenti alla costituzione e alle elezioni presidenziali e legislative che daranno un volto nuovo al paese. I gravi incidenti nuovamente esplosi nella seconda metà del novembre del 2011 hanno portato alle dimissioni anche questo gabinetto e il Consiglio Supremo militare ha allora incaricato di formare una nuova compagine governativa un politico della vecchia nomenclatura, accreditato di personale onestà, comunque legato tuttavia al deposto regime di Mubarak. La condanna di Moubarak all’ergastolo, l’incertezza del risultato delle elezioni, la povertà estrema, il calo del turismo, una delle fonti di ricchezza del Paese (da 320 barconi che lavoravano sul Nilo si è arrivati a 20) rendono il quadro politico e sociale instabile.

-Dai tuoi commenti si capisce che sei innamorato del tuo Paese: che cosa ti ha trasmesso il grandioso passato dell’Egitto, la sua bellezza?
Mi ha lasciato un amore profondo: ogni volta che parto, non resisto lontano, ho radici molto profonde qui. Abbiamo un cielo aperto, siamo abituati a vedere il sole, la luna, le stelle e non sappiamo vivere al chiuso.

-Quale è la posizione degli Italiani nei confronti del vostro Paese? Lo ammirano?
Gli Italiani amano l’Egitto come io amo l’Italia. Fino a qualche anno fa quello italiano era il turismo più importante come numero e come qualità. Ora però è quello russo.

-Quali sono i punti di forza dell’Egitto in economia a parte il turismo?
Il petrolio, il canale di Suez,

-Durante la visita al mercato di Edfu, abbiamo visto il negozietto sulla strada dove gli Egiziani hanno l’abitudine di fermarsi per fare colazione: cosa hanno l’abitudine di consumare al mattino?
Le fave (full medamas) che sono alla base delle polpette dette taamia. Con il nostro pane arabo è facile fare il panino che può essere farcito con pomodoro, polpette, un po’ di verdura (lattuga). Per noi è come cemento armato: chi mangia fave al mattino rimane sazio fino alle prime ore del pomeriggio.

-Altri piatti tipici?
Mulukhia: verdura stagionata, paragonabile ai vostri spinaci, tritata in brodo di carne, di pollo e si mangia con il pane. Poi c’è il bamia, ocra o cornetto greco che può essere mangiato in due modi o è tritata o tagliata a pezzi come le zucchine e salsa di pomodoro soprattutto d’estate, infine il koshari, insieme di pastasciutta, riso, lenticchie, ceci e salsa di pomodoro.

Gabriel esprime le incertezze e le speranze dell’Egitto di oggi, nel tentativo di conciliare la tradizione e la modernità. Da tempo la letteratura si è fatta portavoce dei fermenti politici e sociali: oltre al notissimo Naguib Mahfouz (1911-2006, Vicolo del mortaio, Storie del nostro quartiere, Tra i due palazzi, Il Palazzo del desiderio), Premio Nobel per la Letteratura nel 1988, ricordiamo ‘Ala Al-Aswani (Piccolo Yacoubian), nato al Cairo nel 1957, che esercita anche la professione di dentista, e le scrittrici Radwa Ashur, nata al Cairo nel 1946, il cui romanzo più famoso è Granada, del 1994, Salwa Bakr, nata nel 1949, una delle prime scrittrici egiziane ad aver acquisito una certa fama al di fuori del suo paese, Nawal al-Saadawi (1931, Ho imparato ad amare -1957-, la novella Memorie di una dottoressa -1958-, Firdaus. Storia di una donna egiziana), psichiatra, nonché militante femminista, che ha perorato contro la mutilazione genitale femminile e tante altre.

“Per la sua amata Rabab Zaki bey fu costretto a sopportare moltissime seccature. Dovette trascorrere notti intere al bar Cairo, in un luogo sudicio, angusto, poco illuminato e senz’aria, quasi soffocato dalla folla e dal fumo di sigarette. Il volume assordante dello stereo, che trasmetteva ininterrottamente le canzoni più popolari e triviali, l’aveva reso quasi sordo. Per non parlare dei litigi e delle zuffe fra gli avventori - una mescolanza di manovali, malfattori e vagabondi -, delle coppe di brandy di infima qualità che era costretto a trangugiare, dei conti spropositati, pieni di errori madornali che fingeva di non vedere” (‘Ala Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, p. 12).

“La contrarietà alle donne è universale e non riguarda solo il mondo arabo. Penso al fronte cristiano, ai cosiddetti 'valori della famiglia' con doppio standard; e poi il radicamento dell'idea di verginità obbligatoria, i cosiddetti 'delitti d'onore', le mistificazioni culturali, le violenze fisiche e psicologiche...” Nawal al-Saadawi

DESERTO

Scavo a mani nude
nella sabbia,
con rabbia:
deserto,
rendimi,
restituiscimi
le radici nascoste della mia anima
assetata della tua luce
e dei tuoi miraggi.

L’hai rubata al mio paese.

Fausta Genziana Le Piane

 


“Domina”… DOMINA!

Vacanze in montagna? Per esempio, a Cortina o a Corvara o a Tarvisio (apre il prossimo anno)? Domina!. Al mare? Per esempio in Sicilia a Zagarella (aperta dal 5 giugno 2010)? Domina! Vacanze in città d’arte? Per esempio, a Venezia? Domina! Vacanze all’estero, magari in località esotiche? Per esempio, in Estonia o Lettonia? A Riga, a Tallinn e a San Pietroburgo (tra pochissimo...)?…DOMINA!
Domina è nata da relativamente poco tempo ma ha al suo attivo tredici sedi e altre apriranno (Sicilia - Zagarella Santa Flavia, Porto Rotondo, Portofino, Positano, Isole Tremiti, Sharm El Sheilkh, Tarvisio, Cogolo di Pejo, Cortina, Corvara, Courmayeur, Venezia, Venezia Giudecca).
Incontro Andrea Molendini - responsabile commerciale del Triveneto, Cogolo e Venezia - a Cogolo di Pejo, in provincia di Trento, nella Domina Home, Hotel quattro stelle, del Parco dello Stelvio:

- Qual è la formula della Domina?
- Qui a Cogolo – dice - siamo presenti dal 2001 e con le vendite dal 2002. La Domina Vacanze S.p.A, di cui è direttore Paolo Vittorio Michelozzi, è nata nel 1988 e oggi costituisce la più importante realtà attiva sul mercato italiano della comproprietà alberghiera, il brand a cui moltissimi clienti affidano ogni giorno le proprie vacanze ed una piccola, preziosa parte del proprio futuro. Con la formula Multisuite è possibile diventare proprietari esclusivi di una suite all’interno di una delle bellissime residenze alberghiere Domina Home in Italia e all’estero, selezionando la località ed il periodo di soggiorno più adatti alle proprie esigenze, e riservandone per sempre l’utilizzo. Domina Vacanze ha scelto la libertà della formula “non utilizzo, non pago”: nessuna spesa di gestione ordinaria in caso di rinuncia all’utilizzo della suite. Nata negli anni ’80 quando era in voga la scelta della multiproprietà, la Società ha poi saputo conciliare in modo originale ed efficace questa filosofia con quella dell’albergazione. Non bisogna dimenticare che le Multisuite Domina sono autentiche case vacanza, con tutti i servizi di un Hotel di lusso: ristoranti, cambio biancheria ed assistenza costante da parte dello staff Domina Vacanze. Inoltre, come proprietari, si beneficia di tariffe ridotte per soggiorni extra durante tutto l’anno in qualsiasi struttura Domina Home. Gli investimenti sono fatti con capitali propri: in tutta Italia quindici mila clienti si dichiarano soddisfatti dei nostri servizi.
A Cogolo ho appena trascorso un riposante periodo di vacanze di quindici giorni accolta dalla famiglia Veneri – Maurizio, Angela e i tre figli - con cortesia e competenza: qui, l’attenzione al cliente è una regola di vita. Ci si sente veramente a “casa”: il motto di Maurizio è “Cosa le occorre? Perché non chiede?”

La struttura si avvale di differenti tipologie abitative: da monolocali a bilocali a confortevoli camere con trattamento puramente alberghiero. Tutte le camere sono fornite di telefono, linea di cortesia, TV satellitare, frigo bar, servizi privati accessoriati di doccia e asciugacapelli. Quasi tutte le camere hanno un balcone o un terrazzo. Alcune suite, inoltre, sono dotate di una calda stube in maiolica. L’hotel è l’ideale sia per chi ama l’indipendenza sia per chi vuole farsi coccolare e vivere una vacanza con tutti i confort. Sia le stanze che gli ambienti comuni (bar, sala d’attesa, sala hobby ecc.) sono confortevoli, arredati con gusto e abbelliti da decorazioni in legno, pitture floreali, quadri e vetrate.
Aurora e Alice sono le impareggiabili presenze alla réception; Mary e Jack si occupano dell’animazione, facendo divertire grandi e piccini con giochi e balli; al piano inferiore, Maria e Diana sono pronte ad accogliere ogni richiesta che riguardi la piscina e il centro benessere. E’ possibile, infatti, usufruire nel corso della giornata dei benefici della piscina, della sauna finlandese alle essenze, del bagno turco con cromoterapia e del vitarium oltre che di altri tipi di trattamenti di bellezza quali massaggi, lampade solari ecc. Il centro benessere è un’oasi di tranquillità, un luogo dove il tempo rallenta e cede il passo alle sensazioni ed emozioni personali, l’ideale per curarsi e rigenerarsi dopo un’intensa giornata vissuta all’aria aperta.
Il buffet della colazione comprende leccornie salate e dolci: dalle torte casalinghe, ai cornetti -ripieni e non-, dalle fette biscottate ai pasticcini anch’essi preparati in casa, dalle marmellate ai frutti di bosco, lamponi e mirtilli a ogni tipo di vivanda (tè, caffè, succhi di frutta, cappuccino ecc); dal prosciutto al formaggio groviera, dalle uova al salame ecc. Macedonia, cereali, pesche sciroppate, yogurt: insomma, chi più ne ha più ne metta!
E i pranzi e le cene non sono da meno. Grazie ad un ricchissimo buffet di verdure crude e cotte e all’abilità del cuoco Paolo che sciorina specialità e stuzzichini di ogni specie, i pasti diventano una gioia del palato e si arricchiscono di piatti insoliti, quali risotto alla Teroldego, hamburger alla Lionese (anche il semplice e banale hamburger acquista un sapore unico!), canederli solandri in brodo, battuta di maiale all’aceto balsamico, sformato di verdure su coulisse di formaggio casolet, garganelli alla Nicotera, torta Linz ecc. Se l’ora dei pasti è un atteso e piacevole momento di ritrovo è anche merito delle assistenti di sala sempre gentili, disponibili e professionali: Buswioc Romina, Marini Alessia, Timis Sava, Grosu Maria Elena (e Silvia al servizio-bar) contribuiscono ad arricchire il gusto dei cibi e delle bevande con il loro sorriso e la loro eleganza.
Tra le gite più gettonate e organizzate nei minimi particolari sono da segnalare: la serata di gala, ossia la cena a lume di candele con musica dal vivo; la passeggiata sotto le stelle, al termine della quale attendono vin brûlé, succo di mele e tè caldi, grappe e dolci di ogni tipo; il barbecue all’aperto dove si gustano salumi e formaggi locali affettati con perizia da Maurizio, aiutato da Rahal, polenta con crauti e fagioli, salsicce, würstel, carne, tutto cotto alla brace e annaffiato da vino Teroldego e acqua Pejo.

A conclusione del lauto pasto del barbecue, amato da tutti perché consente di stare nella natura, tra gli alberi e all’aria fresca, non mancano gli insostituibili bignè ripieni, lo strudel e la torta tipica trentina di frigolotti di Paolo, annaffiati da caffè e grappe varie. Ma non sono da perdere anche l’escursione con la funivia fino a tremila metri, recentemente aperta, quella a San Romedio, alle cascate Nardis di Madonna di Campiglio, alla Malga Pontevecchio ecc.
Paolo Leo, il superbo cuoco dell’Hotel, è di Ceccano ma vive in Trentino da tanti anni. Inutilmente tento di farmi dare le quantità occorrenti per preparare lo strudel:

- Quali sono gli ingredienti per preparare un buon strudel?
- Bisogna trasferirsi in Trentino: minimo dopo trent’anni si comincia a saper fare un buon strudel. Occorrono: uva sultanina, uova, pinoli, zucchero, cannella, un po’ di biscotti sbriciolati, mele rigorosamente golden, pasta sfoglia (anche già pronta). Si mescolano tutti gli ingredienti e si lascia cuocere l’impasto arrotolato nel forno a 190° per 35 minuti.
Buon soggiorno e buon appetito a Cogolo!

NUBE LENTA

Bussa
lenta e timida
la nube
da dietro
il filare alto
degli abeti montani.
Sollecita
al volo bizzarro della farfalla
al ridere scomposto del torrente
al sole insistente dell’estate
alle fusa con i gatti.

Domina home Parco dello Stelvio
Via S. Antonio, 16
I-38024 Cogolo di Pejo (TN)
info@hotelstelviodomina.it
Tel.+39.0463.754553

Fausta Genziana Le Piane