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Fausta
Genziana Le Piane
UN'AFFASCINANTE IPOTESI: SULLE TRACCE DI GESU' IN INDIA. INTERVISTA
A MANUEL OLIVARES
Manuel
Olivares, sociologo di formazione, vive e lavora tra Londra e l’Asia.
Nel 2002 pubblica il saggio dal titolo Vegetariani come, dove, perché
(Malatempora Ed) al quale seguono Comuni, comunità ed ecovillaggi
in Italia (2003) e Comuni, comunità, ecovillaggi in Italia, in Europa,
nel mondo (2007). Nel 2009 fonda l’editrice Viverealtrimenti, per
esordire con Un giardino dell’Eden, il suo primo testo di fiction
e Comuni, comunità, ecovillaggi su un antico e moderno movimento
di comunità sperimentali ed ecosostenibili. Seguono Yoga based on
authentic Indian traditions, il suo primo libro in inglese e Barboni
sì ma in casa propria, una raccolta di racconti e poesie. Gesù in
India? è maturato nel corso di dieci anni di studi e ricerche sul
campo, prevalentemente in Kashmir, Punjab e Ladakh, avendo come
base la città santa di Varanasi.
Il libro - molto ben documentato e affascinante - indaga gli “anni
perduti” di Gesù (quelli di cui non si fa menzione nei Vangeli)
che ne ridefiniscono la figura nei termini di un viaggiatore e profeta
universale (p. 25). Pare che Gesù, partito dalla Palestina appena
dodicenne, abbia compiuto un pellegrinaggio di diciassette anni
in India, nel corso dei quali si aprì, da discepolo, agli insegnamenti
del Buddha e, allo stesso tempo, predicò come un maestro (p. 26).
-La
tua è una vita da nomade: si può tornare indietro da questa scelta?
Penso proprio di sì. Io amo molto la prospettiva filosofica buddhista
che si basa su tre caposaldi: dukkha, anicca, anatta; (inevitabilità
della) sofferenza, impermanenza e assenza di un sé autonomo perché
tutto è interconnesso, ragion per cui, scriveva il grande monaco
vietnamita Thich Nhat Hanh: noi non, semplicemente, siamo, bensì
inter-siamo.
Per rispondere alla tua domanda, considererei il secondo caposaldo:
l’impermanenza. Tutto è impermanente, transitorio, la parola “definitivo”
ha sempre avuto, a mio vedere, un che di arbitrario, come dire,
di falso. Dunque non posso che risponderti: oggi vivo nomade, consapevole
che domani, se dovessi ancora esserci, potrei scegliere o essere
costretto a vivere in altro modo. Dunque, certo, si può tornare
indietro anche se, in realtà, indietro non si torna mai. La stessa,
eventuale, sedentarizzazione sarebbe, difatti, un’esperienza diversa
da quella vissuta in precedenza (io stesso sarei, nel frattempo,
cambiato), da accogliere, possibilmente, con l’apertura che si dovrebbe
a tutte le esperienze nuove, cercando di concedere il meno possibile
alla paura. Noi tutti siamo nuovi ogni giorno. Nulla stagna, anche
se così può sembrare.
Ti racconto un breve aneddoto di qualche anno fa. Sono in Thailandia,
a Chiang Mai e ho appena terminato un ritiro in un importante monastero
buddhista della città (Wat Ram Poeng), dove a suo tempo andò in
visita anche Benedetto XVI. Il monaco che ha seguito noi stranieri
nel corso della nostra permanenza (io, tra me, lo chiamavo Ho Chi
Minh) ha un carattere strano, come dire, un po’ furastico.
Sono dunque appena “rientrato nel secolo” ma, nei giorni successivi,
decido di fare un altro ritiro. Dunque torno in monastero, vado
da Ho Chi Minh e gli chiedo se, di lì a una settimana, posso rientrare
per altri dieci giorni. Lui mi dice di sì, che c’è posto. Nel corso
della settimana che mi separa dal ritiro, tuttavia, decido di non
farlo più. Colpevolmente non lo vado a dire a Ho Chi Minh anche
se mi sono trasferito a vivere a due passi dal monastero e dovrei
farlo con solerzia. Passano circa dieci giorni e giunge il momento
in cui decido di passare in monastero per una breve seduta di meditazione,
terminata la quale, avviandomi verso l’uscita (i monasteri buddhisti,
in Thailandia ma anche altrove, non sono, in genere, costituiti
da un solo edificio, sono più delle cittadelle con molti edifici:
vari templi, foresterie, uffici) chi ti incontro? Ho Chi Minh. In
principio mi prende un minimo di sgomento. Lui, ti dicevo, ha un
carattere furastico e se mi avesse fatto una lavata di testa avrebbe
avuto perfettamente ragione. Mi vede ma non mi saluta (va specificato
che non salutarsi, in Oriente, è molto più normale che in Occidente,
il saluto in quelle terre non è così scontato, nel caso dei monaci,
poi, dovrebbero essere i laici a salutare per primi). Io decido
rapidamente di non fare finta di niente, di avvicinarmi e scusarmi.
Dunque, dopo averlo salutato rispettosamente, gli faccio: mi dispiace
per non essere venuto ad avvertire che non avrei fatto un nuovo
ritiro, spero di non aver tenuto occupato il posto per qualcun altro.
Ho avuto degli impedimenti...ma Ho Chi Minh mi ha già interrotto
con un ampio sorriso: don’t worry, mi risponde con tono distaccato,
everything is impermanent!
Io dalle letture buddhiste avevo già in qualche modo assimilato
il concetto ma debbo dire che quell’episodio con Ho Chi Minh lo
ha proprio impresso a fuoco nella mia coscienza.
È come se avesse rappresentato un piccolo satori, una piccola illuminazione.
Certo, tutto è impermanente! Limitiamoci a ricordare questo.
-Che
significato ha una vita nomade? Quello della libertà o anche quello
dell’egoismo?
Lo stesso concetto di ego, da un punto di vista buddhista, è arbitrario.
Come ti dicevo prima, citando Thich Nhat Hanh, noi non, semplicemente,
siamo, bensì inter-siamo. Ho appena caricato sul canale You Tube
della Viverealtrimenti una bella intervista a Mario Monicelli, noto
solitario, persona che non si è mai fatta una famiglia dunque, secondo
alcuni, egoista oltre che misogeno e misantropo (povero Monicelli,
giele attribuivano tutte...). L’intervistatore gli chiede lumi sulla
sua solitudine e lui da, a mio avviso, risposte che denotano una
buona saggezza. Dice di non soffrirne perché, alla fine, sta solo
unicamente in casa propria, dove la solitudine può essere godibile
(stando in uno spazio protetto che, inoltre, è anche il proprio,
albergando le proprie cose). “Quando esco nel mio quartiere”, dice
Monicelli nell’intervista (il bel Rione Monti di Roma), “sono sempre
in relazione: vado dal barbiere, vado a fare la spesa, conosco tutti
e tutti mi vogliono bene, dunque non mi sento solo”. Credo avesse
ragione, che fosse ben consapevole di inter-essere e che lo stesso
concetto di solitudine sia frutto più di paura che di altro. In
virtù della dimensione dell’interessenza, si può essere in contatto
con gli altri anche senza dividere con loro spazi fisici. Si può
essere in contatto, ad esempio, attraverso i sogni, soprattutto
i cosiddetti sogni vividi dove probabilmente incontriamo anche forme
di coscienza disincarnata, vive nel piano incorporeo (la coscienza
non ha necessariamente bisogno di un corpo, di una “tunica di carne”,
per utilizzare un antico concetto gnostico), di persone trapassate
che non sono definitivamente scomparse, sono solo passate da un
piano di realtà all’altro.
Dunque, a mio parere, dovremmo in primo luogo dotarci di categorie
di riferimento più ampie e poi, alla luce di queste, riconsiderare
alcuni concetti. Abbiamo parlato della solitudine, abbiamo accennato
all’ego (con cui noi siamo identificati tutte le volte che dimentichiamo
non solo di essere ma di inter-essere), consideriamo meglio il concetto
di egoismo. È, come spesso accade, un concetto molto relativo. Mi
è capitato di verificare quanto spesso si accusino, egoisticamente,
gli altri di essere egoisti. Capita che li si consideri tali perché
si nutrono, nei loro riguardi, delle aspettative che loro non soddisfano.
L’epiteto di egoisti viene dunque dato loro, spesse volte e in certa
misura, in ragione di una propria frustrazione però sarebbe anche
saggio chiedersi: quanto sono egoista, io, a pretendere che un’altra
persona soddisfi a pieno le mie aspettative? Fino a che punto è
eticamente lecito, da parte mia, avere un certo genere di aspettative
nei riguardi di un altro? Essere egoisti, a mio modo di vedere,
è prima di tutto una questione di ignoranza. Più siamo coscienti
di inter-essere, più il rapporto con l’altro è all’insegna di uno
scambio naturale che ricorda le inspirazioni (con cui si prende
l’ossigeno rilasciato dalle piante) e le espirazioni (con cui si
rilascia anidride carbonica che viene utilizzata dalle piante nel
corso della fotosintesi clorofilliana).
Dunque, per rispondere alla tua domanda in merito al senso egoistico
di una vita nomade, non posso che dirti: dipende! Dipende da come
la si vive. Il nomade non è un marziano, è una persona come tutte,
può essere saggia o stolta, buona o cattiva, egoista o meno. Quante
persone che hanno una famiglia regolare, avendo magari provveduto
a sistemare i figli in una casa vicina alla propria, si comportano
in modo egoistico? Certo, la qualità dei rapporti in una vita nomade
è diversa da quella di persone stanziali. Non tutti riescono a tenere
adeguatamente conto di quanto le persone possano essere legittimamente
“biodiverse”, trovando più semplice giudicare in base a categorie
stereotipe.
Veniamo ora alla libertà. Mi chiedi se il significato di una vita
nomade possa essere quello della libertà.
Io mi domando e ti domando, a questo punto: cosa significa essere
veramente liberi? Mi viene in mente un dialogo del film Easy Rider,
cult degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Lo ricordo
praticamente a memoria. Jack Nicholson, avvocato alcoolizzato, si
è appena aggregato a due beatniks capelloni, vagabondi, motociclisti,
reietti e fumatori di ganja. La sera, di fronte a un bel fuoco di
bivacco, uno dei due gli dice: “a noi non affittano le stanze negli
hotel, nemmeno in quelli più economici perché le persone, di noi,
hanno paura”. Jack Nicholson, a quel punto ? uomo di mondo, integrato
ed emarginato a un tempo, in grado dunque di dominare entrambe le
prospettive, di coloro che sono inseriti nel sistema e degli outsiders
? gli risponde in modo molto filosofico: “non hanno paura di voi,
hanno paura di quello che voi rappresentate. Voi rappresentate la
libertà!”.
“Cosa c’è di male nella libertà”, gli risponde a quel punto il beatnik
(Dennis Hopper), “la libertà è tutto...”.
“Oh, sì”, riprende Jack Nicholson, “la libertà è tutto ma parlare
di libertà ed essere liberi sono due cose diverse. Voglio dire:
è difficile essere liberi quando ti vendono e ti comprano al mercato.
Certo, ti parlano, ti parlano e ti riparlano di questa famosa libertà
individuale ma quando vedono un individuo veramente libero, allora
hanno paura!”.
Una paura, avrebbe ripreso Hopper, “che non li fa scappare” ma,
avrebbe infine chiosato Nicholson, “li rende pericolosi”.
Difatti Dennis Hopper e Peter Fonda, i due beatniks, lasciato Jack
Nicholson al suo destino e alla sua bottiglia, avrebbero fatto una
brutta fine. La paura della loro libertà avrebbe reso, effettivamente,
gli “integrati” pericolosi…in un paese ? gli Stati Uniti ? dove
le armi sono sempre girate con una certa disinvoltura: Bang!
Dunque, cosa significa essere veramente liberi? Quanto figure come
quelle di Dennis Hopper e Peter Fonda in Easy Rider rappresentano
davvero la libertà? Io credo ne rappresentino, senz’altro, la ricerca
spasmodica, quella stessa cui la maggior parte delle persone che
si integrano senza obiezioni rinuncia, magari per paura, odiando
coloro che invece la portano avanti.
Ma quanto la vera libertà si possa trovare attraverso la dromomania,
la mania di muoversi da un posto all’altro, senza meta precisa,
credo sia altra questione.
Anche in questo caso credo la piena libertà si possa trovare nel
momento in cui si è liberi dall’ignoranza, ci si ricordi, in ogni
istante, che la sofferenza è inevitabile ma può essere profondamente
accettata in quanto tale, che nulla meriti attaccamento morboso
perché tutto è impermanente, che noi ci illudiamo di avere uno statuto
ontologico autonomo mentre, in realtà, viviamo in una dimensione
di interessenza e che tutto quel che accade è espressione di un’intelligenza
superiore e qui si lascia il piano puramente filosofico entrando
in quello della connessione e della relazione con il divino.
Il significato di una vita nomade è quello della libertà? Mi sembra
francamente una prospettiva un po’ schematica. La persona veramente
libera può essere nomadica o stanziale, l’essere libera, a quel
punto, è una variabile indipendente.
-Il
viaggio per il viaggio può essere una forma di fuga?
Certamente sì, può esserlo. È essenziale la maturità con cui si viaggia
e questa la si può, naturalmente, acquisire con il tempo, “nessuno
nasce imparato”. A questo proposito credo meriti specificare una cosa.
Il viaggio, di per sé, non rende edotti, genera sicuramente esperienza
ma affinché l’esperienza si traduca in conoscenza e saggezza è necessario,
il mondo, non solo calpestarlo. Va anche interpretato. In questo caso
il viaggio diventa un elemento importante di un processo ermeneutico
che possa contribuire a sviluppare conoscenza e saggezza. Insomma,
si può anche girare tanto ma a vuoto, magari senza liberarsi delle
quattro categorie stereotipe della propria cultura, relazionandosi
con gli altri (esponenti di altre culture, anche profondamente diverse
dalla propria) attraverso bieche proiezioni. Chi viaggia per fuggire
rischia, a mio vedere, più di altri di girare a vuoto, per quanto
il viaggio può sempre dare dei bandoli di consapevolezza in più e
insegnare a continuare a viaggiare ma in maniera più matura.
-Certo
il viaggio non è sempre quello romantico, esotico di cui parla Charles
Baudelaire per esempio in “Invitation au voyage”: cosa si prova davanti
alla miseria e alla povertà sapendo di non poter agire?
Bella domanda, grazie! Mi punge un po’ sul vivo perché io mi muovo
fondamentalmente in Asia dove si trovano ancora molte forme di povertà
e di miseria (e se la miseria materiale è orribile, è quasi ancora
più orribile il fatto che generi altre forme, non immediatamente materiali,
di miseria). Cosa si prova di fronte ad esse? Banale dire: rabbia
e compassione ma, per quanto mi riguarda, provo soprattutto queste
due emozioni.
Altrettanto banale parlare del grande senso di impotenza che ogni
tanto coglie ma è proprio quello che in alcuni casi si prova. Poi,
al solito, a costo di diventare noioso, la stessa percezione di questi
fenomeni varia con il tempo. Ci si matura dentro, si tenta almeno
di farlo, ci si cresce dentro. Si cerca di farsene una ragione. Sicuramente
la precarietà materiale e la sofferenza che genera tanto più colpisce
quanto più coinvolge persone con le quali si creano rapporti umani
che, con l’andare del tempo, acquisiscono spessore.
Un modo sicuramente bello per crescere dentro a quest’esperienza è
sviluppare, con giusto equilibrio, la qualità che in sanscrito si
chiama dana: generosità. Relazionarsi con persone che soffrono a causa
di una precarietà materiale deve, a mio vedere, stimolare la consapevolezza
del nostro privilegio e ispirare gesti di autentica generosità. Un
privilegio che non viene, almeno in parte, condiviso è, a mio parere,
immeritato.
Una bella frase di Salvador Allende è: “Noi vivremo in eterno in quella
parte di noi che abbiamo donato agli altri!”. Vivere in Asia aiuta
a farne tesoro.
-Dici
che l’India è una “grande palestra di vita” e una “vera scuola di
sopravvivenza”: che intendi?
Dalla tua domanda desumo che tu non sia mai stata in India...un paese
che, a mio vedere, ti forma molto anche in ragione di quello che non
ha oltre che di quello che ha. In India acquisisce veramente grande
pregnanza il detto chi fa da sé fa per tre!
Gli indiani, persone molto spesso di straordinaria intelligenza e
maturità umana, vivono non di rado in una sorta di torpore millenario,
dettato da un deliberato immobilismo sociale (che oggi sta iniziando
a venir meno; il paese è oramai nell’orbita americana, vista anche
la necessità, a mio vedere piuttosto urgente, di contenere l’espansione
e l’ascesa cinese; questo naturalmente ha i suoi pro e i suoi contro).
Dunque, sostanzialmente, su di loro non si può fare molto affidamento
e per tirarsi fuori da tutti i guai in cui ti caccia il paese, dove
ancora oggi manca, quasi ovunque, un’erogazione costante di energia
elettrica, le connessioni internet sono ancora erratiche, gli standards
igienici…aiuto e potrei continuare a lungo, bisogna davvero fare appello
a tutte le proprie risorse (e, praticamente, solo a quelle) per viverci
periodi ragionevolmente lunghi.
Dunque vivere in India finisce per essere un’esperienza davvero formativa
in cui ci si scopre ogni giorno più o meno capaci di affrontare, praticamente
in solitudine, le più svariate, grottesche e imprevedibili difficoltà,
tra cui la costante guerra psicologica che è una delle caratteristiche
antropologiche del paese.
-La
lettura del tuo recente libro sulla permanenza di Gesù in India scorre
piacevolmente grazie alla formula scelta, cioè quella d’intervallare
pagine di diario a parti più teoriche e permette al lettore di entrare
nelle abitudini di un mondo così lontano: ti capita mai di guardare
al passato e di rimpiangere la scelta che hai fatto?
Amo molto la canzone, di Edith Piaf, Je ne regrette rien! Credo sia
un approccio esistenziale giusto. Sul passato non c’è modo di intervenire,
ristagnarci toglie invece l’opportunità di agire sulle due dimensioni
temporali per le quali abbiamo facoltà di intervento: il presente
e il futuro. Cerco di non avere rimpianti e di sorvolare su quello
che avrebbe potuto essere e non è stato. Per colpa mia o di altri,
lascia il tempo che trova.
Credo sia importante avere sempre coscienza del fatto che l’essere
umano è, fondamentalmente, una grande opera incompiuta. Inutile affannarsi
a realizzare chissà cosa, dimenticando la nostra condizione di fragilità
creaturale, di stare “come d’Autunno, sugli alberi, le foglie”. Facciamo
un esempio personale: io ho scritto, fino ad oggi, dieci libri. In
particolare i libri sulle comunità intenzionali e gli ecovillaggi
hanno aiutato alcune persone a “vivere altrimenti”. Mi capita di ricevere
per email o anche di persona manifestazioni di riconoscenza per questo.
Spero che anche il mio ultimo libro, Gesù in India?, possa essere
utile a chi lo legge e credo possa, almeno, aiutare a vedere il mondo
anche con altri occhi e questo credo sia già una buona cosa. Ho dato
un mio piccolo contributo alla collettività ma, se non tenessi a freno
il desiderio, potrei volere fare di più e di più, potrei giudicarmi
per non aver fatto ancora abbastanza ma di questo passo si finirebbe
per rischiare di sviluppare quello che il sociologo francese dell’Ottocento,
Emile Durkheim, chiamava appetito d’infinito. In realtà, l’infinito
è la dimensione stessa della vita e la cosa ci dovrebbe tranquillizzare.
Il mondo stesso, nell’ambito del quale, pur senza rendercene adeguatamente
conto, inter-siamo, è conoscibile all’infinito perché non solo è immensamente
grande ma cambia di momento in momento, trasmuta costantemente in
qualcosa di simile ma, in ultima analisi, diverso da sé. Dunque non
avremo mai modo di coglierlo nella sua infinità, anche se riuscissimo
a girarlo e a viverlo tutto, dovremmo, a fine viaggio, iniziare da
capo per trovare un mondo nuovo, solo “parente” del precedente. E
il nostro mondo, lo sappiamo, è un fenomeno insignificante rispetto
all’universo o agli universi, dove probabilmente molte altre civiltà,
chissà di quante, infinite cose noi non sappiamo assolutamente nulla.
Poi ci sono, come si accennava prima, le forme di coscienza disincarnata,
tutto l’universo incorporeo e tutto è ordinato, pensato o chissà quale
verbo sarebbe più appropriato usare, da un’intelligenza superiore,
rispetto alla quale qualunque cosa noi si possa fare non può non perdere
drammaticamente di valore.
A fronte di tutto questo, che importanza può avere se Manuel Olivares
ha scritto dieci libri o venti o nessuno? C’è una dimensione etica
per cui, nel grande respiro del cosmo ognuno deve compiere il suo
pur piccolo respiro ma, detto questo, le proiezioni egoiche, le ambizioni,
le velleità e gli stessi rimpianti, se si cerca di essere costantemente
coscienti del nostro inter-essere nell’infinito, nell’ambito di un
ordine/ espressione di un’intelligenza sovrumana, diventano delle
assolute inezie con le quali si dovrebbe evitare, nella misura del
possibile, di perdere tempo. Qualunque cosa possa fare un uomo, solo
con enormi difficoltà giungerà al “compimento della grande opera”
(l’unico obiettivo che meriti davvero i nostri sforzi), per ascendere,
secondo molte prospettive, a dimensioni di coscienza superiori, pur
non scevre, a loro volta, da limiti.
Il parametro di riferimento, dunque, non deve essere tanto l’umano
(e questo è invece uno dei problemi più gravi dell’Occidente contemporaneo
e della suo narcisista società secolarizzata) ma, come a mio modo
di vedere è ancora molto chiaro nel mondo islamico, il divino (l’intelligenza
sovrumana cui si accennava, per azzardare una definizione) cui, semplicemente,
abbandonarsi. E i musulmani hanno una straordinaria parola araba con
la quale ribadiscono, nel quotidiano, il loro rimettersi completamente
nelle mani di Dio, ben consci della loro fragilità creaturale: inshallah;
Se Dio vuole! La cosa straordinaria è che molti di loro tendono a
utilizzarla anche in relazione alle cose più banali, ad esempio: domani
vado a fare una passeggiata, inshallah! Ed è un utilizzo che ha una
pregnanza del tutto logica, oltre che mistica. In effetti: domani
faccio una passeggiata innanzitutto se domani ci sono ancora; potrei
morire nel sonno o potrebbe morire una persona a me vicina e domani
dovrei andare nella camera ardente, non a passeggiare, potrebbe morire
il gatto e questo potrebbe farmi passare la voglia di farla o potrebbe,
semplicemente, piovere o potrei avere mal di testa o voglia di stare
a letto con la mia ragazza perché il giorno prima abbiamo mangiato
piccante e siamo pieni di fregole...quanto controllo abbiamo, effettivamente,
non dico sulle nostre vite, anche sui loro banali dettagli? E allora
perché non riappropriarci del nostro senso di fragilità creaturale,
lasciando da parte la spocchia “un po’ francese” che abbiamo iniziato
a metter su a partire dal secolo dei lumi e rioccupare il nostro posticino
di piccole-grandi opere incompiute? Ecco, potremmo profondere energia
in questo più che cedere alla tentazione di ristagnare nei rimpianti,
in qualunque rimpianto.
-Tu
sei abituato a viaggiare: il pellegrinaggio sulle tracce di Gesù in
India cosa ha rappresentato per te rispetto agli altri viaggi?
È stato un viaggio straordinario perché per trovare i bandoli dei
presunti anni indiani ho dovuto un minimo approfondire alcune scuole
di pensiero in ambito hindu, buddhista e musulmano, andando, come
si suol dire, sul campo.
L’India è un paese molto affascinante e inesauribile, sto trovando
nuovi bandoli per cui la ricerca, come del resto scrivo alla conclusione
del testo, è appena iniziata e la prospettiva è quella di un ritorno
e di nuovi sopralluoghi (“inshallah”). Considerando il viaggio già
fatto, mi è successo di dovermi muovere anche fuori da rotte peculiarmente
turistiche e naturalmente sono state le esperienze più pregnanti.
Il Ladakh, conosciuto anche come Piccolo Tibet, è abbastanza sfruttato
turisticamente. È stato il primo posto che ho visitato perché nel
monastero ladakho di Hemis sono stati trovati dei manoscritti che
hanno rappresentato il leitmotiv di molta ricerca sugli anni indiani
di Gesù. Tuttavia, andare proprio a Hemis è stata un’esperienza molto
profonda perché non essendoci andato da turista e dunque non dovendomi
limitare a una visita di un pomeriggio, ho passato più di una notte
in casa di una famiglia ladakha, nel villaggio poco distante dal monastero.
In alternativa c’era solo la guesthouse del monastero, non mi risulta
ci fossero alberghi, il posto ha un turismo da corriera, da tempi
contingentati e fotografie frettolose.
Il Ladakh è davvero un posto da ascesi, cos’altro si può fare in un
luogo dove persino l’ossigeno scarseggia? Ecco, per certi versi seguire
i presunti itinerari di Gesù mi ha costretto a seguire percorsi di
ascesi e questo non ha potuto non costituire la conferma che mettersi
sulle tracce dei grandi uomini è sempre di grande beneficio. Una prima
esperienza, in questo senso, la ebbi a Rishikesh nel 2006, nell’ashram
di Shivananda, yogi con cui aveva studiato il grande storico delle
religioni Mircea Eliade. Poi avrei scoperto che nei tempi in cui visse
a Rishikesh Eliade, l’ashram ancora non esisteva e che lui aveva piuttosto
vissuto in dei kuteers (grotte/capanne per asceti) dalla parte opposta
del Gange, dunque quella volta non indovinai il posto ma ricordo fu
un’esperienza straordinaria passare una settimana nell’ashram di un
grande maestro spirituale e non in un comune albergo. Gli altri ospiti
erano quasi tutti degli Swami o dei Sadhu. Mangiavamo in terra, con
le mani, seduti su strisce di tela grezza, ci servivamo il té da un’enorme
damigiana di ferro…era la dimensione ascetica vera e la stavo vivendo
perché stavo tentando di emulare il grande maestro Eliade. Sulle tracce
di Gesù questo discorso ha acquisito, naturalmente, ancora maggiore
pregnanza, mi sono trovato a Srinagar, la prima volta nel 2009, quando
la tensione nelle strade era più palpabile di oggi, con presidi di
militari, sacchi di sabbia, mitraglie e fili spinati e poi ci sono
tornato, nel 2014, dopo la splendida esperienza in Ladakh e ho visitato
nuovamente Rozabal, il santuario dove sarebbe sepolto Gesù e dove
tutti sconsigliano di andare perché la zona è particolarmente a rischio
per la presenza di molti fondamentalisti kashmiri ma io non ho mai
avuto percezione del pericolo e poi ero sulle tracce di un grande
maestro e questo mi faceva sentire, in qualche modo, protetto. Poi
ci fu l’incontro con la Comunità Islamica Ahmadiyya e un soggiorno
nella loro città santa, Qadian, in Punjab. Un incontro da cui sono
uscito profondamente cambiato, a seguito del quale ho iniziato a vedere
il mondo anche con altri occhi perché, per quasi venti giorni, sono
stato da solo in un contesto integralmente islamico che mi si è disvelato
giorno dopo giorno e che ha iniziato a comunicarmi un’altra (la loro)
versione della storia e dell’attualità ed ho iniziato ad avere glimpse,
che poi avrei approfondito e sto continuando ad approfondire, di quella
che credo possa essere definita, con una generica metafora, l’altra
metà del cielo. Non più guscio di stereotipi: un grande mondo vero,
di gente in carne e ossa che ha iniziato a prendere vita, vita vera
intendo, non trailer televisivi o articoli di giornali, ad accogliermi
e a parlarmi ed è stata la scoperta di un altro infinito da esplorare
e tentare di capire, pur con tutta l’inadeguatezza dei mezzi di cui
dispongo.
È stato veramente un grande viaggio, sulle tracce dei presunti anni
indiani di Gesù e spero davvero che sia solo agli inizi...
-Che
cosa ti affascina di Gesù? Come vedi la sua figura?
Mi fai una domanda difficile. È difficile parlare di una figura immensa
come quella di Gesù. Proviamo. Intanto mi preme sottolineare che per
me Gesù non è “della stessa sostanza del Padre”. Meglio: non l’ho
mai sentito come tale (poi è questione di fede, per carità), l’ho
sempre sentito come un grande maestro e, allo stesso tempo, ho sempre
condiviso nel profondo la prospettiva che del personaggio da Fabrizio
De André nel suo capolavoro La buona novella. In una parola, condivido
la definizione di De André secondo cui Gesù sarebbe stato il più grande
rivoluzionario della storia. Una grande scoperta è stata il posto
di tutto rispetto che Gesù occupa nell’Islam, dove è soprattutto conosciuto
con il nome arabo Issa. Ecco, oggi posso dirti che, in merito a Gesù
e anche in merito alla visione di Dio (che si lega, del resto, a quella
di Gesù), mi sento molto più vicino all’Islam che al Cristianesimo.
Dio, nell’Islam, è il ganz Andere, il totalmente altro, imperscrutabile,
cui ci si può solo accostare senza che sia pensabile alcuna fusione
(come invece si propone nell’Induismo) perché non si può postulare
una consustanzialità tra creatore e creato. Una prospettiva così trascendentalista
del divino, che non può in nessun modo essere rappresentato (perché
nel momento in cui lo si rappresenta, lo si limita), mi ha persuaso
nel profondo. La non rappresentazione del divino credo, difatti, possa
agevolare nell’intuizione o percezione...anche qui le parole non sono
adeguate, dell’assoluto. Del non soluto, del non diluito, di ciò che
è puro, non precipitato, in nessun modo, nel mondo delle forme. Pura
intelligenza e pura potenza, di cui l’essere rappresenta un’espressione
in assenza, tuttavia, è bene ripeterlo, di una qualunque consustanzialità.
Dunque, in questa prospettiva, Dio non si può fare uomo. Non sarebbe
più Dio, si “diluirebbe”nella condizione umana e gli stessi fedeli
potrebbero finire per percepirlo, pur senza rendersene conto (parliamo
in questo caso di elaborazioni inconsce di simboli), come ? scusa
l’espressione forte ? “un dio decaduto”.
Un input di riflessione potrebbe essere il seguente: non può forse
essere che la nascita di fenomeni come l’Umanesimo, propedeutici al
Rinascimento prima e al Secolo dei lumi poi e, in una parola, alla
progressiva collocazione dell’uomo e non più di Dio al centro del
mondo occidentale, cristiano abbia le sue radici nella identificazione
di Dio con un, pur grandioso, uomo? Senza nulla togliere al contributo
che l’Umanesimo, il Rinascimento e l’Illuminismo hanno dato al progresso
del genere umano ? sono convinto fossero passaggi necessari ? oggi
ci troviamo con una cristianistà a brandelli e un mondo islamico che
invece ha mantenuta integra, nel sociale e nella dimensione esistenziale
della maggioranza dei suoi membri, la propria dimensione religiosa,
che sta crescendo in fretta (secondo alcune stime l’Islam diventerà
la prima religione al mondo entro il 2070) e ha già una presenza più
che significativa in Europa e negli Stati Uniti.
Tutto questo, forse, anche perché l’Islam ha mantenuto al centro del
proprio mondo Dio, ridimensionando costantemente l’uomo. Un Dio che,
in virtù del proprio essere completamente trascendente, non si è mai
“incarnato”.
Ciò non toglie che Gesù, nella prospettiva islamica (che io, come
accennavo, tendo a condividere), pur non essendo Dio, ne sia stato
guidato come il più grande profeta dopo Maometto: il protagonista
del Sigillo della profezia.
Per quanto mi riguarda Gesù, oltre a essere stato un grande profeta,
è anche stato, ripeto, il più grande rivoluzionario della storia,
come sosteneva De André. Il suo grande impegno nel sociale è quanto
mi coinvolge di più, la proposta di una visione intimamente fraterna,
del relazionarsi con l’altro da uno spazio interiore di apertura,
amore e non competizione. Il suo insegnamento è eterno e universale
e credo sia del tutto auspicabile condividerlo con altre culture.
Grandi maestri indiani del Novecento e fondatori di nuovi movimenti
religiosi si sono distinti nel sostenere alcune ipotesi sugli anni
indiani di Gesù: autorità del calibro di Paramhansa Yogananda, Osho
Rajneesh e Sai Baba, per citare solo i più conosciuti.
-Vi
accomuna il viaggio?
Sicuramente la dimensione di vita nomadica che emerge da diverse letture
apocrife della figura di Gesù e che riprende fedelmente lo stile di
vita di Buddha e dei suoi discepoli la sento, per forza di cose, molto
vicina.
-Nel
libro si accenna al fatto che, secondo un testimone oculare, Gesù
non morì sulla croce, ma fu deposto vivo, con le funzioni vitali sospese
per poi tornare, dopo tre giorni allo stato psicofisico ordinario:
non è strano? La crocifissione era una vera e propria condanna a morte,
un’ordalia, non una tortura: in quanto, a Gesù, in aggiunta c’erano
i chiodi che per i ladroni non erano presenti. Difficile sopravvivere.
Immagino sia difficile però ci sono testimonianze storiche, una ad
esempio di Flavio Giuseppe, in cui si parla di persone crocifisse,
pur con i chiodi e che, calate dalla croce, hanno avuto modo di sopravvivere.
Poi, soprattutto, c’è il fenomeno di coloro che si fanno crocifiggere,
a Pasqua, nelle Filippine. Con tanto di chiodi, in adempimento a un
voto particolarmente impegnativo. Ce ne sono alcuni video su You tube.
Rimangono in croce un’ora o due e poi ne vengono calati e, come scrive
Jacopo Fo nel suo Gesù amava le donne e non era biondo, “naturalmente
non muoiono”. Stando a quanto si legge sui vangeli canonici, Gesù
è rimasto sulla croce massimo sei ore, un tempo considerato limitato
per provocare la morte, al punto che il fatto che lui fosse morto,
malgrado non gli avessero spezzato le gambe, ha lasciato scettici
diversi contemporanei, a partire da Ponzio Pilato, come risulta dallo
stesso Vangelo di Marco.
-Come
definiresti the hearth of Asia, il cuore dell’Asia di cui parli nel
libro?
In realtà l’espressione è ripresa dal titolo di un libro del pittore
russo Nicholas Roerich che anche si mise sulle tracce degli anni indiani
di Gesù, viaggiando in Asia per oltre quattro anni (dal 1923 al 1927).
A me è venuta in mente, come avrai letto, quando sono stato a Srinagar
la prima volta, mi sembrava davvero di stare nel cuore dell’Asia perché
quella zona era uno snodo importante della celebre via della seta
e, nel tempo, ha visto passare gente di ogni genere: mercanti dalla
Cina, dalla Persia, dal Medio Oriente, dall’Asia Minore, dalla Grecia,
dalla Palestina e dall’Egitto e mercanti indiani diretti a Occidente
o di ritorno in India. Mercanti ma anche ? come scrive l’economista
indiano, Premio Nobel, Amartya Sen ? filosofi, cercatori del vero
che, a loro volta, si muovevano lungo le stesse rotte.
Il Kashmir è stato per lungo tempo un luogo buddhista (il quarto concilio
buddhista si è svolto a pochi chilometri da dove si trova attualmente
Srinagar, intorno al 70 dopo Cristo), ha sempre ospitato importanti
e colti lignaggi brahmanici (lo stesso Pandit Nehru era kashmiro),
poi ha iniziato a islamizzarsi nel sedicesimo secolo con migrazioni
di maestri sufi dalla Persia, credo davvero si presti ad essere definito
the hearth of Asia.
-Il
libro allude ad altre suggestive ipotesi, per esempio quella per cui
Pilato sarebbe stato un “complice” di un disegno voluto a salvare
Gesù.
Sì, sono ipotesi anche corroborate da alcuni documenti apocrifi, ad
esempio la lettera di Pilato a Tiberio.
Naturalmente sono ipotesi di cui è difficile dimostrare la veridicità.
E ancora, quella secondo la quale la Sindone sarebbe una prova valida
della sopravvivenza di Gesù alla crocifissione.
Sulla Sindone mi sono limitato a riportare quanto scrive Holger Kersten
nel suo testo Jesus lived in India (tradotto in italiano con il titolo
La vita di Gesù in India). È un filone di ricerca immenso e complesso
quello relativo alla Sindone e io, al momento, non mi sento competente
per esprimere un giudizio circostanziato.
-
Si parla, nel libro, anche di origine ebraica di afghani e kashmiri.
Si, è un altro filone interessante di ricerca. Si ipotizza che almeno
parte dei membri delle disperse dieci tribù di Israele si siano, nel
tempo, stabilite in quei territori. Probabilmente a seguito di successive
migrazioni, a partire dall’ottavo secolo Avanti Cristo, a seguito
della diaspora assira e, con una certa consistenza, nel 175 avanti
Cristo, probabilmente a fronte della durezza e intolleranza del regno
ellenistico, in Palestina, di Antioco IV Epifane.
Come scrivo alla fine del libro, è auspicabile che questo e altri
filoni di ricerca vengono seguiti anche da istituzioni accademiche.
Sarebbe buono, ad esempio, se venissero assegnate tesi di laurea su
questi argomenti. Le ricerche, in una parola, debbono continuare e
il drappello di ricercatori è auspicabile cresca e si diversifichi.
Fausta
Genziana Le Piane
“ROSAFURIA”: E NON E’ UNO SCHERZO!
Vi
consiglio di fare una bella passeggiata nel quartiere Coppedé,
splendido esempio di liberty romano. Si tratta di un complesso di
edifici situato a Roma, nel quartiere Trieste, tra piazza Buenos Aires
e via Tagliamento. Pur non essendo propriamente un quartiere, venne
così chiamato dallo stesso architetto che lo ha progettato.
È composto da diciotto palazzi e ventisette tra palazzine ed
edifici disposti intorno al nucleo centrale di piazza Mincio. Percorrete
Via Tagliamento, nei pressi appunto della celebre piazza Mincio: scoprirete
un negozio davvero particolare gestito da due sorelle, Maria Rosa
e Ilaria, ed un fratello, Andrea, pieni di estrosità e creatività.
Un ambiente dove sono esposti capi di abbigliamento (per il 90% provenienti
dall’estero), oggetti di decorazione, piccoli complementi di
arredo (per l’80% dall’estero).
-Chiedo
a Rosa, portavoce della famiglia Giacomantonio, perché il negozio
si chiama “Rosafuria”: in verità è il mio
nomignolo del liceo dove mi chiamavano “furia”, l’ho
mantenuto: corrisponde al mio carattere.
In effetti, Rosa è istintiva, passionale in tutto ciò
che fa: dall’insegnamento –dove ha l’abilità
di lasciare liberi nella creazione i suoi allievi, guidandoli senza
forzarli mai- alla scelta degli oggetti da vendere. Si lascia prendere
da furenti “coups de coeur”, colpi di fulmine subitanei
per materiali, tecniche, fantasie.
-Com’è
nata l’idea del negozio?
L’idea del negozio è stata un’evoluzione. Ho cominciato
a lavorare con Paola di “Pepe Bianco”, vicina di negozio
(anzi mi affittava una parte del suo negozio). Le facevo vedere i
miei lavori e mi ha spronato ad insegnare le tecniche di decorazione.
Sono diciassette anni che programmo corsi per adulti. Paola mi ha
insegnato la pittura su porcellana, la sua specialità, anche
se io l’ho in realtà rubata con gli occhi: questo è
un segreto, bisogna rubare con gli occhi. Lo consiglio a tutti.
-Che
studi hai fatto?
Sono autodidatta cosa che consente di essere veramente padrona dei
materiali. Partendo dal fatto che non si hanno le basi e che non si
sa come funzionano i materiali, si fanno tutti gli errori possibili.
E poi, conoscendo tutti i difetti di una data materia, se ne diventa
padroni. Da questo punto di vista essere autodidatti aiuta a conoscere
di più i materiali, fondamentalmente.
-Quali
corsi organizzate?
Organizziamo corsi per adulti a soggetto, con un progetto libero e
corrispondente al suo gusto: realizziamo subito un oggetto che piace.
Ho cambiato la formula perché il metodo classico è noiosissimo:
tracciare tre righe per tre giorni di seguito è monotono, anche
se è utile. In realtà le righe si fanno lo stesso con
il disegno a piacere. La tecnica usata è quella per imitazione:
praticamente mostro come si fa senza sostituirmi all’adulto.
La maggior parte degli artisti non rivela la propria tecnica, sono
gelosi, come nessuno dà la ricetta originale di un cibo. La
giusta esecuzione fa parte di un’arte che poi si mette da parte,
perché non fa di una persona un’artista. Poi, nell’anno
riusciamo a organizzare due cicli per i bambini che sono sempre diversi
e si ispirano sempre alla Storia dell’Arte, ad un artista in
particolare oppure ad altro. Per esempio, i bambini realizzano la
copertina di un CD o di un libro oppure il loro mondo ideale costruito
tridimensionalmente (mondi di ballerine, di pesci, di violenza con
coltelli, mostri ecc.). Cerchiamo di non censurare nulla.
-Quando
hai preso in mano i colori per la prima volta?
Da sempre ho giocato con la fantasia da tutti i punti di vista. Per
esempio, mia madre mi ha insegnato a ricamare ma ho messo da parte
questa attività perché pensavo che non fosse creativa.
Poi io e Andrea ci siamo messi a disegnare e ora mia madre lavora
sui nostri disegni: magari mi fossi avvicinata al ricamo così
dall’inizio! Sarebbe stato più divertente. Giocavo anche
molto da piccola, giochi assurdi (all’Odissea, all’Iliade,
ad Anna Frank): l’idea della creatività c’è
stata sempre.
-Come
scegli gli oggetti e gli abiti da vendere?
Secondo il gusto personale che però adatto al pubblico che
nello stesso tempo deve essere stimolato. E’ molto importante
andare per fiere: apre gli orizzonti. Leggo molto anche riviste e
giornali: la nostra clientela cerca oggetti un po’ particolari.
-Hai
realizzato mostre?
A Roma, ne ho promosse in vari luoghi: una sulla superstizione, una
sullo spazio, le galassie e le distanze infinite, una sugli animali
con delle caratteristiche tali per cui non si trattava dell’animale
classico (per esempio il coccodrillo aveva sei zampe ecc), una sulle
donne –Belladonna– ecc.
Fausta
Genziana Le Piane
LE ILLUMINAZIONI DI NINA MAROCCOLO
-Victor
Hugo affermava che “E’ l’oceano sondato, resta l’anima
da sondare”, ti sei definita “ESPLORATRICE”: quale
dei due è più facile da conoscere, l’oceano o
l’animo umano? Come dice il grande scrittore portoghese Eça
de Queiroz, quanto più profondamente l’uomo sonda se
stesso, tanto più si riconosce insondabile?
Secondo la dottrina buddhista mahayana, quando si parla di oceano
ci si riferisce all’oceano del samsara: il ciclo delle esistenze.
E quasi mai è possibile tornare alla consapevolezza cosciente
di quali siano state quelle remote… Ma è anche vero che
la nostra piccola genesi si racchiude in questo oceano che può
tramutarsi in “esistenza illuminata”. La vastità
dell’oceano ci spinge a considerarlo in senso figurato, ovvero
abissale, profondissimo com’è il nostro inconscio; ma
che esso contenga anche l’Anima, credo di sì.
Più esploriamo, più entriamo in contatto con realtà
che si prefigurano oggetto di ricerca delle origini – tanto
più l’insondabilità diviene meno aspra.
Per me Oceano e Anima sono entrambi oggetto di questo “andare”:
pariteticamente.
-Finalmente
con te quello che mancava – ma ormai per poco - in letteratura:
una genealogia al femminile. Il tuo libro è pieno di figure
femminili di riferimento…
Ho sempre tenuto a raccontare la grande Storia e perfino il Mito ripercorso
da parte femminile. Il fondamento di questa “genealogia”
matrilineare è presente nell’opera teatrale di Eschilo,
la trilogia “Orestea”. Meglio specificare che si tratta
di quel passaggio dalla condizione di Erinne a quello di Eumenide.
Questa trasformazione, evoluzione duale direi necessaria, attraversa
interamente i personaggi femminili di Animamadre. Può accadere
anche il contrario, e nella costruzione romanzesca è stato
per me anche più interessante: le Eumenidi che si ritrovano
ad essere persecutrici erinniche.
“In fondo, vi consolerebbe se fossi una creatura malevola. Oh,
se consolerebbe! Farebbe risvegliare le vostre lacune d’ombra
in soleggiate motivazioni”… intona quello che considero
il personaggio più bello del romanzo, Carmela detta La donna
di pece. Eumenide per eccellenza. Amore votato al sacrificio.
-Non
sono totalmente d’accordo con Giuseppe Berto nella sua interpretazione
della celebre frase di Flaubert “Madame Bovary sono io”.
Il grande scrittore francese intende dire che Emma esprime la sua
parte femminile. E si conosceva molto bene…ed è tanto
vero quanto è vera Emma. Quale è il tuo maschile? Tuo
padre? Il dottor Negro?
L’Anima è femminile, non ha forma né tempo. Ne
assaporiamo la vastità.
Qui entra in gioco un altro fattore che è l’identità.
Secondo Jung l’Io che si manifesta primariamente è quello
corporeo: solo in un secondo momento – intorno all’età
bambina dei quattro/cinque anni – si comincia a dire “Io”
o “Me”; altrimenti dall’atto della nascita non vi
sarebbe nessuna condizione dell’esistenza di un Io.
Quest’ultimo è come un edificio in continua costruzione:
ma senza averne una fine.
In questo contesto considero Flaubert illuminante, quando si rispecchia
in Emma parte femminile della sua Anima. Ma non tralascerei il discorso
identitario…
La mia parte maschile è facilmente plausibile, e detiene la
sua interezza in ciascun uomo che entra o esce dalla scena. Fausta,
è dolorosa questa domanda!
Senza sottrarmi potrei dire che forse è mio padre: colui che
è stato danneggiato, poi danneggerà a sua volta. Ma
penso, e mi auguro, che il mio maschile sia il Dott. Negro... Lui
accoglie aspetti positivi ed etici, si prende cura di chi soffre,
accede ai malesseri altrui in modo delicato ma fermo, ha precise convinzioni:
è colui che manifesta e opera il Bene.
-Quanto
è importante per te il dubbio?
È la marcia. Il passo veloce. Camminare senza una meta precisa,
sapendo che non arriverai mai perché in ogni passo puoi trovare
semi di verità, la tua verità, e altri che ti costringeranno
a ripensare se quella verità lo è davvero. È
qui che accedo al profondo, che nulla rivela in forma indolore…
Scrivo in Animamadre: “Si è costretti ad
oltrepassare il dubbio, l’incertezza, traendo dall’inconoscibile
il reale spaventoso. La scrittura è degli irriconciliati”.
Il dubbio non dovrà mai diventare nevrosi.
-Ed
il silenzio?
Certo che è importante! È una forma meditativa, un ristoro,
sono lunghe pause per ritrovare un baricentro perduto. Dico perduto,
perché la scrittura porta al facile funambolismo, non essendo
un’attività proprio conciliativa ma di apertura ai varchi
e talvolta agli abissi.
Silenzio è preghiera.
-Il
tuo libro è ricco di metafore, simboli, archetipi. Vorrei soffermarmi
su quella delle scarpe, “bene prezioso” (p. 58). Hermes
è un dio calzato, poiché ha preso possesso legittimo
della terra dove cammina: desideri prendere possesso della terra dove
cammini? Simboleggia per te anche il viaggio? Le tue scarpe sono sfuse,
spaiate: manca l’intesa, l’armonia con gli altri? La scarpa
era per gli Antichi un segno di libertà: a Roma gli schiavi
andavano a piedi nudi. Anche per te le scarpe rappresentano la libertà?
No, non credo di nutrire la necessità di possedere qualcosa,
anche fosse la terra dove cammino. In me il concetto di “possesso”
non esiste, ma quello di libertà sì. Le scarpe contengono,
innanzitutto. E Freud dava una connotazione sessuale all’oggetto
che contiene un altro oggetto, come nel corpo umano gli orifizi.
Con le scarpe spaiate tendo a sottolineare una sessualità incompleta,
una sorta di armonia che viene a mancare fra due persone. Sicuramente
tratteggia anche una difficoltà con gli altri, probabilmente
di comunicazione.
Ce n’è fin troppa, oggi, di comunicazione: e l’eccesso
porta a distanza le persone. Spesso si comunica anche male e le scarpe
stanno strette, e non solo a me. Forse ne sono consapevole, questa
è la mia fortuna. Eppure vorrei saper raggiungere l’altro
da me: nel cammino, spesso, resto indietro…
-“La
memoria è l’essenza delle cose”: è anche
la cassaforte dove attingere nei momenti dolorosi della vita, come
dice Almodovar?
Assolutamente sì. In ogni momento della vita, da quello doloroso
a quelli lieto.
La scrittura, si sa, ben oltre Proust, propizia la ricerca, il rito
del tempo perduto e poi ritrovato. Straordinaria cassaforte, e Almodovar
la sa lunga… Il problema è un altro: che molte volte,
i preziosi contenuti della memoria perdono valore, o stranamente ne
acquistano.
La memoria – anche pubblica, collettiva – è uno
dei valori che più dovrebbe essere difeso, perché ci
aiuta nel presente in cui frammenti inconsapevoli del futuro germinano.
-Per
usare il titolo di un celebre libro di Marie Cardinal, tu hai trovato
“le parole per dirlo”. Le parole salvano e il tuo linguaggio
è forte, simbolico: scarti sempre “la parola superflua”?
E quale è la parola superflua? Il troppo? Che rivela “intime
debolezze” (p. 25)?
Le parole salvano ma possono anche dannare. L’uso del linguaggio
è una responsabilità da cui non si può prescindere.
Sai perfettamente che incontri qualcuno che leggerà un tuo
libro, e ricordarsi di questo “qualcuno” è un tramite
per arrivare a dialogare intimamente con lui… La parola non
potrà mai essere casuale, e niente deve spingere uno scrittore
ad essere compiacente di (e con) se stesso. L’orgiastica grammatica
della rivelazione può far emergere un sentimento di “potenza”
che non va ascoltata; immediatamente trattenuta – si distrugge.
Diventa pericoloso, e il troppo dire – l’uso smodato,
irresponsabile o addirittura propagandistico del linguaggio (guardiamo
alle dittature ideologiche del Novecento) – alimenta una fragilità
travestita da vuoto. Il vuoto della Volontà di Potenza.
Questa è l’“intima debolezza”.
-Parliamo
ancora dello stile: lo trovo innanzitutto un libro ben scritto, cosa
molto rara di questi tempi, ma non solo. La coscienza e l'irrazionale
si sovrappongono.
Come nella vita. Siamo figli di una causa e del suo effetto: può
anche capitare che l’effetto si manifesti prima della causa.
Così la diade Coscienza-Non Coscienza: confini molto labili,
per ciò affascinanti. Amo profondamente indagare sia l’una
che l’altra: la scrittura permette di spaziare, è un’arte
che necessita di disciplina, dunque la libertà va saputa gestire.
I primordi che non conosciamo dell’inconscio ci portano a un
livello di recezione tanto più intensa quanto più lo
sai ascoltare. Non esiste un metodo (l’ipnosi?), ma l’ascolto
(recedere alle proprie origini è sempre una grande sfida).
Credo che il segreto sia saper ascoltare segni e incognite. Porsi
risposte ancor prima delle domande.
Lo stile è una conquista.
-Che
ruolo ha la tua competenza musicale nell’ordito dello scritto:
“sillaba sonora”?
Sono cresciuta con la Musica. Canto.
Questi sono aspetti determinanti sia della mia formazione che della
mia struttura creativa. Scrivere è musica. Ogni mio elaborato
è frutto di una filigrana musicale, la chiamo “partitura”;
e nella sua composizione divento maniacale.
Si deve sentire il suono, i suoni, i flauti, le cavità baritonali,
le note soprane, le pause: si tratta di un pentagramma riproducibile
dell’opera stessa.
Animamadre non è soltanto un libro da leggere, ma – soprattutto
– da ascoltare.
Un giorno lo porterò davvero su partitura “ufficiale”.
-Per
te “la letteratura non è gioco, non è un soprammobile,
non è un paravento” (p. 173): l’arte è un
“nido”? Una “perdita”? Una fuga (Henri Laborit)?
Questo insieme di definizioni ed altre ancora?
Tutto insieme. Vorrei che non fosse una fuga, ma la base per affrontare
i problemi che ci attanagliano. Nido neanche: è comodo e caldo,
poi bisogna pur svolare.
La letteratura è la sutura di una ferita, la ricomposizione
di una perdita. Salvezza e Redenzione. Laiche, sia ben chiaro.
La fede è mistero privato.
-Che
cosa devono fare “le femmine per non avere un destino triste”
(p. 26)?
Bella domanda! Le protagoniste di Animamadre sono quasi tutte
tristi.
C’è una tristezza che insorge come impriting ereditario,
e karmikamente non si può far nulla. Studiando su me stessa
e dialogando con psicologi, emerge il dato dell’infelicità
che è il ricamo sul mio pollice identitario. L’insufficienza
degli affetti, dell’essere amata, sentire costantemente l’abbandono…
ci provo da tempo a superare, a far saltare in aria questi fossili:
l’unica cosa che funzioni davvero è amare gli altri,
dedicarsi agli affetti, non lasciare mai solo qualcuno. Un’energia
benevola: quella virtù cardinale che nel buddhismo del Grande
Veicolo viene chiamata Compassione.
In senso meno personale, credo che la donna debba recuperare la sua
natura femminile, femminea, senza troppo innalzare barricate neo-femministe
o creando antagonismi con il maschio e –soprattutto– non
scimmiottandolo.
Non sono una conservatrice, la donna deve essere rispettata:
nei diritti civili, lontana dagli abusi, non preda di stupri, violenze
e delitti efferati. È ovvio che emerga una forza difensiva,
e la creatura femminile va difesa e riportata all’attesa del
Nuovo. Un destino nuovo, più giusto, più libero.
-Hai
incontrato Alejandro Jodoroswsky (importanza della genealogia), un
personaggio eclettico che ha attinto a svariate culture creando un
modo personalissimo di affrontare le proprie paure. C’è
un atto magico tutto tuo che ti ha aiutato?
In ogni istante e istinto dell’arte c’è un atto
magico. È il sogno, l’avvenire alchemico.
Un personale “Cabaret Mistique” in solitaria.
-La
tua scrittura è rimbaldiana e non a caso citi Rimbaud: “La
tua quartina (…) s’immerge in boschi di sangue / e ne
risale” (p. 206): nel corso della tua “stagione all’inferno”,
ti sei fatta veggente. Come sei risalita?
Forse riaddentrandomi nel mito, risalendo l'archetipo, la psicologia,
la cultura poetica che indaga l'altrove al quale non mi sottraggo...
Non dico di inseguire la veggenza del “fanciullo dalle suole
di vento”, ma sicuramente mi propongo un approdo e insieme un’implosione
delle nascoste immagini interiori.
Sono considerazioni, le tue, che accompagnano la mia fede in visioni
nuove, incrementando quella pura forza meditativa che dall'Io si accende
in fiamma inestinguibile del Noi. Da qui l'origine di ogni vero approccio
alla scrittura.
Senza l'altro difficilmente esisterebbe una felice collocazione dell'Io
nel mondo. La sua compiutezza accade in "insieme".
Grazie,
cara Nina, per averci permesso di entrare nel tuo mondo e di averci
dato la possibilità di conoscerti un po’ meglio.
Fausta
Genziana Le Piane
LE
DATE DI UNA VITA
Nina
Maroccolo, Massa 1966. Cresciuta in Sardegna da bambina, approdata
a Firenze nel ‘75 – dove ha studiato Arte e Musica –
vive e lavora a Roma dal 2004. Scrittrice, cantante e performer, autrice
di testi teatrali, interprete, artista visiva. Lavora a recital, perfomances,
improvvisazioni, azioni sceniche, teatralizzazione di testi. Sono
i “Canti per voce nuda”. È membro della Factory
AL-KEMI lab; redattrice dei blog collettivi “NEOBAR”.
Pubblicazioni
IL CARRO DI SONAGLI (City Lights Italia 1999); ANNELIES MARIE FRANK
(Empirìa 2004, 2a ed. 2009), con una lettera di Alda Merini;
FIRENZE-ROMA (Pulcinoelefante 2004), a cura di Eric Toccaceli; DOCUMENTO
976 - Il processo a Adolf Eichmann - (testo drammaturgico tratto dalla
silloge di teatro contemporaneo “Qui e Ora”, Nuova Cultura,
Roma 2008), con prefazione di Fabio Pierangeli e Roberto Mosena; MALESTREMO
(Le Reti di Dedalus 2008); ILLACRIMATA (Tracce 2011), con saggio introduttivo
di Paolo Lagazzi; UN ANGELO DI FARINA – Cinque liriche e una
ballata - (Lepisma 2011); S’IMPALPITI MATERIA – Omaggio
a Giacomo Manzù – libro-oggetto d’arte a tiratura
limitata (Edizioni d’Arte Musidora 2011). Contributi letterari
del gruppo sinestetico “perIncantamento”. Introduzione
di Marcella Cossu, Direttrice della Raccolta Manzù di Ardea,
e saggio critico di Plinio Perilli; ANIMAMADRE (Tracce 2012), romanzo:
prefazione di Fabio Pierangeli, postfazione di Ubaldo Giacomucci.
In corso di pubblicazione MALESTREMO – Sedici viaggi nell’Altrove,
introduzione di Marco Palladini, a concludere la Trilogia dal titolo
I POSTERI DEL MODERNO (Illacrimata, Animamadre, Malestremo).
È presente in numerose antologie. Ricordiamo la più
recente : “L’evoluzione delle forme poetiche – La
migliore produzione poetica dell’ultimo ventennio (1990-2012)”
(Kairós 2013), a cura di Ninnj Di Stefano Busà e Antonio
Spagnuolo; “La Fede” (EdiLet 2013), a cura di Marco Onofrio
e Stefania Severi.
Musica
e Canto
Numerosi i suoi concerti, le performances e i recital. Tra le sue
pièces teatrali, interpretate e cantate, ricordiamo almeno
la “Salomè” (da Oscar Wilde), “Annelies Marie
Frank” (dal suo libro omonimo), e l’estemporanea “Partitura
per ferro e terra” dedicata all’opera dello scultore Jaume
Plensa. La sua attività musicale è inoltre inclusa in
“I Love Rock ‘n’ Roll – Storia del rock italiano”,
a cura di Raffaele Palumbo ed Ernesto De Pascale (Giunti 2009).
“Nastro – Omaggio a Giacomo Manzù” (Salone
del Libro, Auditorium DM, Torino 2012), cortometraggio per voci recitanti,
elettronica, corto / videoarte. Regia di Istvàn Horkay, musica
di Daniele Venturi. Testi poetici di Nina Maroccolo, Plinio Perilli
e Faraòn Meteosès.
Fausta
Genziana Le Piane
INTERVISTA A GIUSEPPE CALCERANO
Giuseppe
Calcerano è nato a Giarre, in provincia di Catania, e si è
laureato ingegnere nell’Università di Genova. E’
stato progettista di grandi opere infrastrutturali e ha coordinato,
tra l’altro, il progetto del tunnel del Gran Sasso. Per un trentennio
è stato Dirigente d’Azienda, sempre nel campo delle grandi
opere ed è stato docente universitario del corso di Progettazione
di Strutture.
Ha scritto numerose pubblicazioni nel campo dell’ingegneria,
ma ha finora tenuto per sé l’amore per la letteratura
e la musica e le riflessioni derivanti dalla sua incontenibile curiosità
per la scienza.
-Che
cosa ti ha spinto a pubblicare “Il Supermondo”?
A fianco della mia attività professionale ed accademica, da
sempre, ho scritto (per me stesso) qualche racconto, magari autobiografico,
qualche poesia, qualche cronaca (da studente ho esercitato anche l’attività
di cronista); inoltre, spesso gli amici, avvertendo una certa dose
di fantasia nei miei racconti di vita vissuta, mi hanno esortato a
fissare sulla carta le affabulazioni che, forse con un certo spirito
ironico, mi divertivo ad esporre nelle conversazioni da salotto; l’ultima
occasione fu l’avvenuta conferma dell’esistenza del Bosone
di Higgs (la cosiddetta “particella di Dio”) che permette
agli studiosi di fisica di spiegare in qual modo nell’Universo
dall’Energia Pura si sia generata la Materia cioè, in
pratica, come si è generato il Mondo che conosciamo (attenzione
“come”, non per opera di chi); fu così che, con
un ragionamento semiserio in una chiacchierata da salotto, mi parve
si potesse sostenere seriamente che non può non esistere, al
difuori dell’Universo, un “Supermondo” (eterno e
senza tempo) che lo contiene come un “passatempo di robot”
ideato ironicamente proprio per attutire la noia dell’eternità;
l’idea fece sorridere e pensare ed io decisi di pubblicarla,
aggiungendo un paio di racconti autobiografici (ovvero sulla vita
di un robot).
-Che
cos’è per te la scrittura?
La scrittura è, per me, uno dei principali mezzi di comunicazione
a disposizione degli uomini, che dobbiamo coltivare perché
l’uomo riesca a trasmettere il suo pensiero nei modi più
semplici e diretti e, perché no, con piacevole scorrevolezza.
-La
scrittura è memoria?
Certo, la scrittura serve per comunicare, ma anche a custodire le
idee e i pensieri trasmessi all’atto della stessa scrittura.
-Percepisci
nella scrittura influenze legate alle tue origini meridionali? Quali?
Certamente, ognuno si porta dietro le influenze e persino gli imprinting
degli ambienti in cui ha vissuto e si è formato; ciò
tanto più in quanto l’ambiente nel quale hai vissuto
i primi anni della tua giovinezza è quello di una Regione come
la Sicilia che è il risultato di una stratificazione di culture
plurimillenarie.
-C’è
relazione tra progettare una strada e progettare un libro?
Per me assolutamente no ! La progettazione di una strada è
un’attività tecnica che discende dalla messa in opera
di criteri deduttivi tecnico-scientifici: Si tratta di collegare un
punto A ad un punto B nel modo più conveniente e stabile possibile,
tenendo conto di tutte le caratteristiche del territorio compreso
tra A e B quali: morfologia, caratteristiche e stabilità del
terreno, considerazioni sugli interventi antropici esistenti. Un libro
si sviluppa intorno ad una idea di qualcosa che si vuol comunicare
e del modo in cui lo si vuol comunicare ma, ripeto secondo me, lo
scrittore deve procedere secondo un canovaccio per seguire le idee
che, a mano a mano, sgorgano dalla mente e devono, soltanto, esser
promosse o bocciate.
-Quanto
rigore serve? Quanta fantasia?
Molta fantasia e tanto rigore: La fantasia è prioritaria perché
produce l’idea generale e consente di procedere nello sviluppo
delle singole vicende senza cadere nella banalità. Il rigore
è indispensabile per evitare di essere eccessivamente indulgenti
nei confronti dei propri difetti di scrittura, che dobbiamo aver imparato
a conoscere.
-Che
cosa aggiunge al ritmo della tua prosa la conoscenza della musica:
aiuta?
Ringrazio per questa domanda. Non avevo riflettuto su questo: alcune
cose ti sembrano naturali e non te le poni coscientemente. Ora, costretto
a riflettere, non ho dubbi: io credo nella scrittura scorrevole ed
armonica e, soprattutto, priva di fronzoli inutili. Credo nella bellezza
di una frase che accarezza l’orecchio come una musica. Specialmente
quando la si definisce poesia.
-L’uomo
è un robot? Programmato per che cosa?
L’Universo (quello finito nel quale siamo direttamente immersi
– non l’infinito che sicuramente contiene l’Universo)
serve a qualcosa? Dal nostro punto d’osservazione non lo possiamo
capire. Forse da quell’ “Infinito che lo contiene”
lo si potrebbe capire, ma a noi non è dato farlo. A me è
parso lecito poter scherzare ( per sdrammatizzare ) e dire: l’Universo
è un giuoco dell’ “Infinito” che, essendo
senza tempo (ovvero essendo il limite matematico ipotizzato da Einstein),
ha generato un ambiente in cui esiste il tempo e vi ha inserito i
robot per non annoiarsi (una contraddizione voluta ironicamente).
Gli uomini-robot farebbero dunque bene a darsi meno importanza….e
vivrebbero meglio !
-“Nel
Supermondo dell’energia e dell’intelligenza pura, il dolore
e il piacere non esistono” (p. 23): ci spieghi meglio cosa intendi
dire?
Secondo la Teoria della Relatività Generale di Einstein (che,
ricordo, è provata) nel nostro Universo lo scorrere del tempo
non è uguale per ogni cosa ma dipende dalla velocità
con la quale la detta cosa si muove. Più è veloce più
lento scorre il tempo e, addirittura, il tempo si ferma se la velocità
raggiunge il valore della velocità della luce. A questa velocità
(limite irraggiungibile) la cosa diventa dunque eterna. La nostra
intuizione di un Dio eterno, quindi, può essere collocata solo
in un Supermondo esterno all’Universo. Là tutto è
eterno e (ironicamente) non è lecito parlare di pazienza (lo
spazientirsi essendo un concetto legato al tempo). Infatti Dio non
si spazientisce e…non si occupa di noi…se non per giocare.
-Credi
nel libero arbitrio?
Nei limiti consentiti dal nostro hardware e dal nostro software, possiamo
agire come vogliamo. Consapevoli della nostra scarsa importanza, è
per noi conveniente generare la minore entropia possibile (non solo
in senso strettamente scientifico, ma anche in senso morale) le nostre
azioni disordinate, infatti, non fanno che danneggiare noi stessi.
Fausta
Genziana Le Piane
DONNE A VERONA
Paola
Lanaro è professore ordinario di storia economica all’università
Ca’ Foscari di Venezia dal 1999.
Materie d’insegnamento: Storia Economica, Storia dell’Impresa,
Storia Economica Regionale. E’ membro del comitato scientifico
del dottorato interateneo in Storia delle Arti. Con Franco Amatori
dirige per Marsiglio la collana di Studi di storia economica e di
storia dell’impresa. E’ invitata regolarmente all’ehess
per corsi di storia della famiglia e storia economica dove ha trascorso
lunghi periodi come visiting professor. Nel 2011 è stata visiting
professor alla New York University. Si occupa di storia economica
dell’età preindustriale con particolare riferimento al
caso veneziano. Ha pubblicato saggi nelle riviste Renaissance Studies,
Journal of Urban History, Histoire Urbaine, Revue d’histoire
moderne et contemporaine, Quaderni Storici, Società e Storia,
Annali di Storia dell’Impresa.
Tra le sue ultime pubblicazioni: All the Centre of the Old World per
Centre for Reformation and Renaissance Studies – Toronto 2006,
I Mercati nella Repubblica Veneta per Marsilio 1999, Donne a Verona
per Cr Edizioni 2012.
Con Franco Amatori coordina i seminari di Stori Economica presso l’Università
Bocconi. E’ vicepresidente dell’Aisu e membro dell’Ateneo
Veneto e dell’Accademia dell’Agricoltura di Verona.
La mia intervista prende spunto dall’interessantissima e recentissima
raccolta di saggi intitolata: Donne a Verona, Cierre Edizioni, 2012
-
Com’ nato il progetto di questo libro? E la tua collaborazione
con Alison Smith?
Alison Smith è una mia carissima amica e a lei ho proposto
il progetto del libro che mi è nato nel cuore e nella mente
come risposta ad una cultura politica di assoluta mancanza di rispetto
nei riguardi delle donne.
-Dedichi
un capitolo al tema della dote (Il circuito femminile della ricchezza
a Verona tra basso medioevo ed età moderna doti ed eredità-secoli
XV-XVIII), una delle leve fondamentali su cui poggiava l’autonomia
della donna in età premoderna, ma il suo ruolo resta distante
dal palcoscenico politico… La capacità di gestire beni
in prima persona dalle stesse donne, come citato, non accade ovunque?
Il caso veneziano, e quindi anche in parte veneto, è noto costituiscono
un’eccezione in campo europeo ed anche all’interno degli
antichi stati della penisola italiana. La gender history sottolinea
l’importanza accanto ad una storia politico istituzionale forte
che vede come protagoniste figure maschili una storia privata contrapposta
a quella pubblica con al centro generalmente le donne: questa storia
basata sulla costruzione di una rete di relazioni non ha un peso inferiore
a quella pubblica politico/istituzionale e proprio in questi ultimi
tempi grazie a recenti posizioni storiografiche internazionali cominciamo
a conoscerne il peso.
-Pensi
che si possano scrivere storie come queste per altre città
italiane?
Certo è possibile anche per altre città scrivere storie
analoghe a questa anche se il lavoro storico deve essere in gran parte
compiuto.
-Come
giudichi la posizione della donna nel mondo di oggi? Quali difficoltà
incontra una donna nel mondo universitario?
I passi compiuti dalla donna in questi ultimi anni in tutti i campi
sono notevoli; forse la società italiana non ha ancora espresso
un adeguamento alla nuova cultura, adeguamento che invece altre società
del mondo occidentale hanno manifestato in modo più maturo.
All’interno del mondo universitario alcune Facoltà sono
dominate da figure maschili, altre invece rivelano un andamento più
equilibrato anche se in linea di massima sono le posizioni non di
vertice ad essere occupata dalle donne. Va però sottolineato
come tutto sia in questi ultimi tempi in movimento.
-
Che cosa pensi che bisogna cambiare? Come?
Con questo libro dedicato alle mie studentesse ho voluto insegnare
loro che non esistono percorsi facile o scorciatoie né oggi
come non lo era in passato e che solo l’impegno ed una seria
professionalità possono aiutare le donne a conquistare quegli
spazi che è giusto loro possano occupare.
-Quale
è la tua genealogia femminile cioè quali donne ti hanno
ispirato?
Veramente sono i valori che mi ha trasmesso mio padre di serietà
ed impegno ad ispirarmi costantemente, valori comunque che mia madre
ha sempre permesso e contribuito affinché si esprimessero in
modo pieno nella nostra famiglia.
-
Che cosa significa per te scrivere?
Amo il mio lavoro, la ricerca e lo studio: scrivere è trasmettere
alle generazioni future quello che ho accumulato nel tempo con gioia
e sacrificio.
-
Che cos’è per te l’infinito?
I bianchi ghiacciai delle montagne più alte dove l’infinito
è sfiorato dalla mano di Dio.
Fausta
Genziana Le Piane
In vacanza con la storia: crociera sul Nilo
GABRIELE,
IL VOLTO DELL'EGITTO DI OGGI, TRA PASSATO E FUTURO
Quanti
di noi hanno sognato sulle pagine dei libri di storia studiando le
vicende degli antichi Egizi, il mistero delle piramidi, i segreti
dell’al di là, la maledizione della tomba di Tutankhamon,
pensando di poter un giorno vedere dal vivo i templi di Abu Simbel
o le tombe della Valle dei Re o i Colossi di Memnon?
Ebbene, ho avuto la fortuna di poter effettuare nel mese di maggio,
una crociera sul Nilo alla scoperta di questo antico popolo e del
glorioso passato del fiume Nilo.
Questo
fiume, che nasce dal Monte Gikizi e sfocia nel Mediterraneo, scorre
nella sezione settentrionale quasi interamente attraverso il deserto,
dal Sudan all'Egitto, un paese la cui civiltà è dipesa
dal fiume fin dai tempi antichi e più remoti. La maggior parte
della popolazione egiziana e tutte le sue città (con l'eccezione
di quelle situate lungo la costa) si trovano lungo la valle del Nilo
a nord di Assuan, e quasi tutti i siti storici e culturali dell'Antico
Egitto si trovano lungo le rive del fiume. Infatti il Nilo rende fertile
le pianure delle sponde lasciando dall’altra parte le dune sabbiose
del deserto lambire i confini dei campi lavorati. Il fiume è
lussureggiante nello sciorinare la sua vegetazione, palme da dattero,
sicomori, acacie coloratissime, e la sua fauna, bianchi aironi e anatre:
dalla larga finestra della cabina della motonave sembrava di assistere
ad uno spettacolo cinematografico.
Partendo da Milano, il volo ci ha portati a Luxor sulla Lady Mary
che fa parte della flotta proprietà della Flash Tour, che ha
altre sette motonavi. La nostra motonave è stata varata alla
fine di maggio del 2004, è lunga 72 metri, larga 15, alta 11,50,
ha un pescaggio di 1,7 metri raggiunge una velocità tra i 12
e 18 metri l’ora, ha 70 cabine, ha 65 dipendenti. Durante i
pasti, poiché il ristorante si trova al piano più basso,
ci siamo trovati al livello dell’acqua… E’ stato
impressionante!
A bordo hanno regnato gentilezza da parte del personale e organizzazione
impeccabile, tutto per rendere gradevole il soggiorno dei turisti:
dal servire il tè o il caffè con pasticcini oppure pizza
sul ponte alla serata araba e alle manifestazioni folkloristiche al
bar.
La nostra guida si chiama Gabriel, splendido pifferaio magico che
ci ha condotto attraverso le mirabili pietre dei luoghi magici della
storia del suo Paese: il Tempio di Luxor, il viale delle Sfingi, le
tombe della Valle dei Re, i templi di Abu Simbel, Ramesse III, Philae,
Edfu, Karnak, Esna, la diga di Asswan, il Lago Nasser e i suoi grandi
coccodrilli, l’isola Elefantina e la tomba dell’Aga Khan,
il colorato villaggio Nubiano.
Il
tempio di Abu Simbel, che si trova nel governatorato di Assuan, sulla
riva occidentale del Lago Nasser, è uno dei più belli.
Il complesso è composto da due enormi templi in roccia ricavati
dal fianco della montagna dal faraone Ramses II nel XIII secolo a.C.,
eretti per intimidire i vicini Nubiani e per commemorare la vittoria
nella Battaglia di Kadesh. Il sito archeologico fu scoperto nel 1813
dallo svizzero Johann Ludwig Burckhardt ma quasi completamente ricoperto
di sabbia, fu violato per la prima volta nel 1817 dall'archeologo
italiano Giovanni Battista Belzoni. Sulla facciata spiccano le quattro
statue di Ramsete II, ognuna delle quali alta 20 metri, in ognuna
il faraone indossa le corone dell'Alto e del Basso Egitto, il copricapo
chiamato "Nemes" che gli scende sulle spalle ed ha il cobra
sulla fronte. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più
piccole, la madre e la moglie Nefertari mentre tra le gambe ci sono
le statue di alcuni dei suoi figli, riconoscibili dai riccioli al
lato del capo. Sopra le statue, sul frontone del tempio ci sono 14
statue di babbuini che, guardando verso est, aspettano ogni giorno
la nascita del sole per adorarlo. Una delle statue di Ramses è
rimasta senza testa, infatti questa è crollata pochi anni dopo
la costruzione del tempio a causa di un terremoto ed è rimasta
ai piedi della statua. Nel crollo ha distrutto alcune delle statue
più piccole che si trovavano nella terrazza del tempio, si
tratta di rappresentazioni dello stesso faraone e del dio Horus (falco).
Sopra la porta di entrata del tempio in una nicchia scavata nella
roccia, c'è la statua del dio Ra' Ho Akthi, è il dio
falco unito al disco solare, la mano destra del dio poggia sullo scettro
indicante trasformazione, detto WSR, mentre la sinistra poggia sull'immagine
della dea Maat rappresentante la giustizia. Questi due simboli uniti
al disco solare Ra' si ritrovano nel cartiglio di incoronazione di
Ramsete II, quindi il faraone vuole indicare che il tempio è
dedicato sia al dio che a sé stesso. Ai lati della nicchia
ci sono due altorilievi raffiguranti il faraone mentre fa offerta
del simbolo della giustizia al dio. Ai lati delle statue poste presso
l'ingresso ci sono delle decorazioni, c'è Hapy dio del Nilo,
simbolo dell'abbondanza, che lega fiori di loto, simbolo dell'Alto
Egitto, con i fiori di papiro, simbolo del Basso Egitto, per dimostrare
l'unione del paese. Sotto queste scene, nel lato destro, sono rappresentati
dei prigionieri asiatici legati con corde che terminano con il fior
dei papiro, simbolo del Nord, mentre nel lato sinistro, sono rappresentati
dei prigionieri africani legati con corde che terminano con fiori
di loto, simboli del sud. L'entrata del tempio conduce alla grande
sala dei pilastri, otto dei quali raffigurano il faraone con sembianze
di Osiride, si tratta di statue alte 11 metri. Nel soffitto ci sono
disegni incompiuti che rappresentano la dea Mut, che protegge il tempio
con le sue ali distese. Le pareti della sala nel lato destro sono
ricoperte di scene che rappresentano la vittoria di Ramses nella battaglia
di Kadesh combattuta contro gli Ittiti. Nel lato sinistro ci sono
altre imprese di Ramses. Da qui si entra nella sala più piccola
del tempio, detta dei nobili, con quattro pilastri quadrati coperti
da rilievi raffiguranti il faraone con varie divinità. Sulle
pareti c'è il faraone mentre offre profumi ed incensi alla
barca di Amon, seguito dalla moglie, la regina Nefertari. Questa sala
conduce al Sancta sanctorum. Da sinistra Ptah, Amon-Ra, Ramses II
deificato e Ra. Il Santuario contiene quattro statue sedute che guardano
verso l'entrata, che a sinistra a destra raffigurano Ptah (dio dell'arte
e dell'artigianato), Amon-Ra (dio del sole e padre degli dei), Ramses
II deificato e Ra (il falco con il disco solare).
All'epoca
queste costituivano le divinità più importanti del panteon
egiziano. Qui, grazie all'orientamento del tempio calcolato dagli
architetti, due volte all'anno, il 21 febbraio, il giorno della nascita
di Ramses II, ed il 21 ottobre, giorno della sua incoronazione il
primo raggio del sole si focalizza sul volto della statua del faraone.
I raggi illuminano parzialmente anche Amon-Ra e Ra-Harakhti. Secondo
gli antichi egizi i raggi del sole avrebbero così ricaricato
di energia la figura del faraone. Il dio Ptah considerato dio delle
tenebre non viene mai illuminato. Dopo lo spostamento del tempio non
si è riuscito a replicare questo fenomeno.
A nord del tempio maggiore, a un centinaio di metri, si trova il tempio,
scavato nella roccia, dedicato ad Hathor ed a Nefertari moglie di
Ramses. La facciata è ornata da sei statue alte 10 metri, tre
ad ogni lato della porta di ingresso. Le statue raffigurano quattro
volte Ramses e due Nefertari. Ai lati delle statue del faraone ci
sono i figli in dimensioni minori, mentre ai lati di Nefertari sono
raffigurate le figlie. È l'unico tempio egizio dove una regina
ha la stessa importanza del faraone. L'entrata del tempio conduce
ad una sala contenente sei pilastri alti 3,20 metri sulla cui sommità
vi sono le teste di Hathor. Sui pilastri ci sono iscrizioni che raccontano
la vita del faraone e della regina e rilievi colorati che rappresentano
sia Ramses che Nefertari con alcune divinità. Alle pareti vi
sono scene del faraone e della moglie che offrono sacrifici agli dei.
L'ultima sala è quella con la statua della dea Hathor.
Con la testa rivolta al soffitto, gli occhi estasiati dalla bellezza
delle immagini circostanti, dalla grandezza e maestosità delle
dimensioni delle statue, noi visitatori ci immergiamo in un mondo
retto da una affascinante simbologia, complessa e poetica, che cerchiamo
di capire. Gabriel si emoziona nel parlare di questo tempio e ci trasmette
il suo amore. Approfitto per porgergli alcune domande.
-Dove
sei nato, Gabriel?
A Luxor.
-Com’è
la situazione di questa città oggi?
Da quando c’è stata la rivolta, il panorama è
incerto perché le attività sono principalmente nel campo
turistico e tanti negozi sono chiusi, molte motonavi ferme, gli alberghi
sono vuoti: stiamo aspettando l’arrivo del nuovo Presidente.
-Come
mai hai studiato la lingua italiana e ti sei così appassionato
alla nostra civiltà?
Ho sempre avuto contatti con gli Italiani, ho lavorato con un’impresa
milanese di costruzioni a Luxor, quella che ha eretto lo Sheraton.
-Ti
rechi spesso in Italia?
Sì, perché conoscere l’Italia mi aiuta anche nel
mio lavoro: spesso faccio paragoni, anche se non è giusto.
-Come
vedi il futuro del tuo Paese?
Spero che sarà meglio di prima: è normale che dopo ogni
rivoluzione ci sia disordine, caos, però l’uomo deve
ritornare alla sua normalità. E il carattere dell’egiziano
è di amare l’ordine, la parità, la giustizia,
la pace. E’ anche un popolo ambizioso: il governo in passato
l’ha un po’ abbandonato, avrebbe dovuto stimolarlo. Vedo
che quelli che hanno avuto occasioni oppure sono emigrati all’estero
hanno avuto successo perché hanno lavorato e hanno trovato
chi apprezza il loro impegno e sono stati anche ben pagati. L’Egitto
è un Paese moderato, ha un ruolo molto importante per tutti
i Paesi Arabi, che aspettano che noi superiamo il nostro problema
e otteniamo un Presidente che governi tutti gli Egiziani per i Nubiani,
i Musulmani, i Cristiani, i Beduini, e non solo una categoria.
Kifaya
è oggi il contenitore di molta dell'insoddisfazione al regime
di Mubarak. Dai liberali agli islamisti, dagli ex marxisti agli antiamericani.
Cairo non è ancora come Beirut, ma il paesaggio egiziano si
sta facendo più mosso. A seguito delle sommosse popolari in
Egitto del 2011, il 12 febbraio 2011, il Presidente Mubarak si è
dimesso. Il Primo ministro Ahmed Shafiq, da lui nominato, è
rimasto in carica fino al 3 marzo 2011: giorno in cui si è
insediato il nuovo primo ministro Issam Sharaf, scelto dal Consiglio
supremo delle forze armate, per traghettare l’Egitto al referendum
sugli emendamenti alla costituzione e alle elezioni presidenziali
e legislative che daranno un volto nuovo al paese. I gravi incidenti
nuovamente esplosi nella seconda metà del novembre del 2011
hanno portato alle dimissioni anche questo gabinetto e il Consiglio
Supremo militare ha allora incaricato di formare una nuova compagine
governativa un politico della vecchia nomenclatura, accreditato di
personale onestà, comunque legato tuttavia al deposto regime
di Mubarak. La condanna di Moubarak all’ergastolo, l’incertezza
del risultato delle elezioni, la povertà estrema, il calo del
turismo, una delle fonti di ricchezza del Paese (da 320 barconi che
lavoravano sul Nilo si è arrivati a 20) rendono il quadro politico
e sociale instabile.
-Dai
tuoi commenti si capisce che sei innamorato del tuo Paese: che cosa
ti ha trasmesso il grandioso passato dell’Egitto, la sua bellezza?
Mi ha lasciato un amore profondo: ogni volta che parto, non resisto
lontano, ho radici molto profonde qui. Abbiamo un cielo aperto, siamo
abituati a vedere il sole, la luna, le stelle e non sappiamo vivere
al chiuso.
-Quale
è la posizione degli Italiani nei confronti del vostro Paese?
Lo ammirano?
Gli Italiani amano l’Egitto come io amo l’Italia. Fino
a qualche anno fa quello italiano era il turismo più importante
come numero e come qualità. Ora però è quello
russo.
-Quali
sono i punti di forza dell’Egitto in economia a parte il turismo?
Il petrolio, il canale di Suez,
-Durante
la visita al mercato di Edfu, abbiamo visto il negozietto sulla strada
dove gli Egiziani hanno l’abitudine di fermarsi per fare colazione:
cosa hanno l’abitudine di consumare al mattino?
Le fave (full medamas) che sono alla base delle polpette dette taamia.
Con il nostro pane arabo è facile fare il panino che può
essere farcito con pomodoro, polpette, un po’ di verdura (lattuga).
Per noi è come cemento armato: chi mangia fave al mattino rimane
sazio fino alle prime ore del pomeriggio.
-Altri
piatti tipici?
Mulukhia: verdura stagionata, paragonabile ai vostri spinaci, tritata
in brodo di carne, di pollo e si mangia con il pane. Poi c’è
il bamia, ocra o cornetto greco che può essere mangiato in
due modi o è tritata o tagliata a pezzi come le zucchine e
salsa di pomodoro soprattutto d’estate, infine il koshari, insieme
di pastasciutta, riso, lenticchie, ceci e salsa di pomodoro.
Gabriel
esprime le incertezze e le speranze dell’Egitto di oggi, nel
tentativo di conciliare la tradizione e la modernità. Da tempo
la letteratura si è fatta portavoce dei fermenti politici e
sociali: oltre al notissimo Naguib Mahfouz (1911-2006, Vicolo del
mortaio, Storie del nostro quartiere, Tra i due palazzi, Il Palazzo
del desiderio), Premio Nobel per la Letteratura nel 1988, ricordiamo
‘Ala Al-Aswani (Piccolo Yacoubian), nato al Cairo nel 1957,
che esercita anche la professione di dentista, e le scrittrici Radwa
Ashur, nata al Cairo nel 1946, il cui romanzo più famoso è
Granada, del 1994, Salwa Bakr, nata nel 1949, una delle prime scrittrici
egiziane ad aver acquisito una certa fama al di fuori del suo paese,
Nawal al-Saadawi (1931, Ho imparato ad amare -1957-, la novella Memorie
di una dottoressa -1958-, Firdaus. Storia di una donna egiziana),
psichiatra, nonché militante femminista, che ha perorato contro
la mutilazione genitale femminile e tante altre.
“Per
la sua amata Rabab Zaki bey fu costretto a sopportare moltissime seccature.
Dovette trascorrere notti intere al bar Cairo, in un luogo sudicio,
angusto, poco illuminato e senz’aria, quasi soffocato dalla
folla e dal fumo di sigarette. Il volume assordante dello stereo,
che trasmetteva ininterrottamente le canzoni più popolari e
triviali, l’aveva reso quasi sordo. Per non parlare dei litigi
e delle zuffe fra gli avventori - una mescolanza di manovali, malfattori
e vagabondi -, delle coppe di brandy di infima qualità che
era costretto a trangugiare, dei conti spropositati, pieni di errori
madornali che fingeva di non vedere” (‘Ala Al-Aswani,
Palazzo Yacoubian, Feltrinelli, p. 12).
“La
contrarietà alle donne è universale e non riguarda solo
il mondo arabo. Penso al fronte cristiano, ai cosiddetti 'valori della
famiglia' con doppio standard; e poi il radicamento dell'idea di verginità
obbligatoria, i cosiddetti 'delitti d'onore', le mistificazioni culturali,
le violenze fisiche e psicologiche...” Nawal al-Saadawi
DESERTO
Scavo
a mani nude
nella sabbia,
con rabbia:
deserto,
rendimi,
restituiscimi
le radici nascoste della mia anima
assetata della tua luce
e dei tuoi miraggi.
L’hai
rubata al mio paese.
Fausta
Genziana Le Piane